Canne al vento

CANNE AL VENTO

Canne al vento
Blaise Pascal

Come canne al vento l’umanità è del tutto esposta alle correnti di ogni sorta e non mi riferisco a tempeste di mari frustati dalla furia dei venti; piuttosto, è succube della furia delle fazioni politiche,  dagli interessi dei poteri forti, dalle opzioni locali -e perché no?- nazionali, mondiali di malaffare, di corruzione, di delinquenza, di mafie e affini.

Chi paga per tutto questo? Mah, di solito è la gente onesta, o interi popoli soggiogati e schiavizzati dalle specie viventi di insana cultura, che si sono appropriate dell’intera ricchezza che la terra produce.

Canne al vento oggi si è per nascita; in passato si diveniva in età adulta.  canne al vento si è per  imposizioni altrui, mai per libera scelta. Del resto a chi mai potrebbe piacere d’essere pervaso da impetuose correnti? 

Canne al vento è la metafora che mi piace adottare per mettere in risalto le mille e mille cause della sofferenza umana e vorrei fermarmi, a un certo punto, nella discesa dai gradini di una scala immaginaria dove imperano, per importanza assunta, le diverse categorie di padroni: Della finanza, della politica, delle multinazionali, delle organizzazioni delinquenziali e mafiose. 

I PADRONI

Da questa scala, in virtù dei diversi poteri assunti, i “padroni” si fanno forti e, in quanto tali, si inebriano e dal tale stato di ebrezza, sragionano e si avventano sulla gente che si trova al di fuori della loro cerchia, intere popolazioni, rese povere, costrette poi a sostenerli in ogni loro impresa, anche la più folle, in cambio di elemosine, ignobili, ma utili alle gente per sopravvivere.

Canne al vento però è un romanzo. Racconta storie di vita, rifacendosi alla memoria filosofica di Blaise Pascal, quel genio le cui esperienze di vita lo forgiarono sino al punto da elevarsi a dotto, ricco di una cultura teologica e filosofica,  che lo condussero nel lontano 1600, a soli 39 anni, nel pianeta “conoscenza”, dopo avere saggiato valori e disvalori dell’esistenza umana, della miseria, quella intellettuale dell’uomo.

Perché genio? Se considero che la sua vita finì appunto a 39 anni, come potrei mai definirlo mediocre? Un grande matematico, un fisico…insomma, uno studioso, un precursore della futura scienza. E il suo pensiero che mette in risalto l’esistenza di Dio dove lo mettiamo? Pascal ostentava, quasi imponendola, la certezza dell’esistenza del soprannaturale Dio, creatore di ogni elemento presente nell’universo. In particolare raccomandava a ragionar di Dio, ad accettarlo come Padre.

Pascal sosteneva il principio di un umanesimo d’essenza viva; combatteva invece quella sorta di piattismo filosofico che altri studiosi assumevano quale mero rimedio, in una sorta di accettazione di una condizione umana disagiata, da tollerarsi. Il piattismo a Pascal non andava a genio.

GRAZIA DELEDDA

Canne al vento
Grazia Deledda

E’ l’autrice del romanzo “Canne al vento”; e il titolo si rifà alle affermazioni Pascaliane secondo cui l’uomo è giusto un fuscello, una canna sballottata dai venti, dalle tempeste provocate dalla disumanità dei governanti di ogni epoca.

Grazia Deledda, non fa altro che dipingersi un quadro, di crearsi un plastico, a memoria di un vissuto della sua gente, la gente di Sardegna. Sono storie reali, scritte in una forma immaginaria d’ambito familiare che si estende in un circondario prossimo, coinvolgendo personaggi ai quali fa vivere drammi comuni, tra difficoltà, tragedie, amori e disamori. La Deledda mette in luce nei suoi racconti, quello che il suo ispiratore aveva evolutamente detto nei suoi studi sull’esistenza umana. 

Non è filosofico il pensiero di Grazia Deledda e in tutta sincerità non lo considererei pensiero. Grazia Deledda scrive i suoi romanzi e raccoglie una sorta di poetica di elevato spessore etico e morale. In Canne al vento lo fa, a tal punto che viene considerata la sua migliore opera, meritevole del premio Nobel per la letteratura (1926), insieme ad altri autorevoli opere. (ne cito solo alcune): Cenere, La madre, Elias Portolu, Marianna Sirca rappresentano la vita della gente della sua terra.

LA FUGA 

Lo fece da lontano dalla sua terra, da Roma. La sua fu una fuga da una terra asfittica, opprimente. Dopo diverse esperienze amorose traumatiche, a Cagliari conobbe l’uomo della sua vita, un continentale che sposò e col quale visse in serenità e condivisione di intenti nel bene e nel male. A Roma la Deledda riuscì ad esprimere al meglio il suo potenziale letterario, sostenuta dal marito che la supportò in qualità di agente.

Chi era Grazia Deledda? Un’autodidatta, una ragazza però affamata di conoscenza che è riuscita a realizzare il suo intimo bisogno di imporsi in ambito letterario, nonostante abbia frequentato le scuole elementari sino al quarto anno. Notevole direi.

E se il suo genio letterario ha fatto sì che il mondo intero arrivasse a conoscere la Sardegna, un’isola sino ad allora chiusa e pressoché sconosciuta, il riconoscimento dai sardi dovrebbe intensificarsi, sino a farla divenire il simbolo, l’effigie, con il suo volto sulla bandiera sarda, più appropriato dell’attuale, che raffigura i quattro mori.

Dopo questo preambolo, entro in causa io, scrittore, autore di un corposo romanzo tra metafisica, quale disciplina attinente l’esistenza di Dio; tra la trascendenza dell’essere e l’immanenza delle cose terrene, per intrecciarsi poi in realtà del quotidiano dell’esistenza umana. Autore di tre volumi di poetica e di alcuni saggi. Entro, in qualità di autore di un racconto breve voluto dal Comune di Galtellì (NU), promotore di un concorso letterario internazionale al quale ho deciso di partecipare: “CANNE AL VENTO” in omaggio alla scrittrice sarda Grazia Deledda. Il testo del racconto lo trascrivo qui sotto. Come titolo ha:

ALTA MAREA

Canne al vento
Giovanni Nachira

Affinità con “Canne al vento”.

Nulla è dato, tutto è compiuto, ma qualcosa c’è sempre da ricevere o da compiersi. Ed è questo il principio su cui Ignazio fonda la sua ragione di vita in una terra “aspra e dura” come lui stesso la definisce.

Vivere o restare? Restare perché? Sono i suoi perplessi pensieri maturati in una notte di gelido Gennaio del 1987. La solitudine se la sentiva addosso, minacciosa e ad essa si sentiva legato come il condannato a morte con il suo carnefice, come la rogna appiccicata all’indole malvagia di un assassino.

Avrebbe voluto vivere Ignazio, fuggendo via dai luoghi non suoi che un malefico fato gli aveva assegnato, costringendolo a un destino amaro.

In un suo romanzo si racconta da vittima di un gioco truce, ordito da un bastardissimo maledetto e disumano essere, povero, cui aveva offerto ospitalità, lavoro, privilegi di socio alla pari, sottraendolo dal rischio di una caduta libera verso la miseria. Tese la mano Ignazio, da buon cristiano qual era, ma capi soltanto poi che prima di accoglierlo avrebbe dovuto pensarci bene e, soprattutto, indagare per scoprire chi realmente fosse il beneficiario del suo altruismo.

Il suo primo romanzo

Ma è un poeta Ignazio, uno di quelli che con i versi ci sa fare. Nei suoi volumi di poesia che precedono il romanzo, ha messo in luce la sua capacità di far poesia descrivendo quei rivoli di bene che in fondo, l’umanità sa concepire, ne è convinto; e che lui trasforma in immenso oceano di pace e gioia, tanto agognata dalle anime pure di questo pianeta.

Racconta pure l’opposta natura degli ominidi, erbe malefiche che abitano la terra per distruggerla, per avvilirla, per mortificare la vita che ivi sussiste.

Liriche poetiche, queste Ignazio scrive. E non è la passione che lo spinge a ciò, piuttosto un bisogno intimo, spirituale, che lo conduce a viaggiare in uno spaziotemporale, dopo averne fissate le coordinate, per raggiungere i reali luoghi del suo immaginario.

IL VIAGGIO 

Parallelamente, Ignazio vorrebbe compiere un viaggio, il suo viaggio vero, dalla terra al mare…e poi, dal mare alla “terra nuova”, il luogo in cui potrebbe finalmente coronare il suo sogno, nel bisogno di realizzarsi, alla faccia di quel “Nulla è dato” e del “Aut Aut” che gli imporrebbe l’alt, uno stop definitivo ad ogni sua velleità: Scegli tra questo nulla o la morte. Gli risuona nei timpani come il ronzio infinito degli acufeni in chi ne soffre: tutto è compiuto… tutto è compiuto… tutto è compiuto. Si ripete l’avviso, come voce nella valle dell’eco, ossessiva insidiosa.

Avrebbe voluto metterci piede nella terra nuova, per “vivere”. Restare però era in un certo senso un obbligo per lui, ma ciò non gli impediva di porsi quel “perché?” così assillante. Doveva trovare la giustificazione per la sua decisione di restare; o meglio, doveva trovare la forza di rassegnarsi a quello che lui definisce “dovere morale” nei confronti dei legami affettivi.

Ma rassegnarsi e restare non significava per lui doversi annullare, tacere, mettere fine al suo creare. Sapeva che la terra in cui sta non gli avrebbe mai offerto opportunità di qualsivoglia natura ed è proprio questa sua consapevolezza che lo spronerà verso la meta ambita della realizzazione di un progetto d’arte che già da tempo aveva elaborato.

IL LUOGO AMENO

Si impose un periodo di meditazione durante il quale si intratteneva in luoghi ameni.

un luogo amenoIl mare quel giorno s’era chiuso in un silenzio mistico; non v’era onda che scuotesse gli scogli; e l’acqua cristallina si faceva scrutare sino in fondo da Ignazio. Si era seduto proprio sullo scoglio più prossimo all’acqua e contemplava il miracolo del connubio tra terra e mare, un rapporto d’amore che nessun essere vivente tra la specie umana ha mai saputo eguagliare. L’acqua si alzo di livello nello scorrere delle ore, silenziosamente; era sopraggiunta l’alta marea e Ignazio pensò che il mare si era elevato per baciare un più vasto lembo di terra, la sua amata.

Giunse quello stesso giorno il frutto delle sue meditazioni e Ignazio si impose di concretizzare il suo desiderio. Fu l’alta marea la sua ispiratrice.

«Non sia mai che io muoia senza aver realizzato ciò che insiste nel mio intimo sentimento. So di aver ricevuto un dono dal cielo nel dì della mia nascita, ma qualche beffardo demone me lo ha sottratto; ed io questo non posso accettarlo, per cui lotterò con tutte le mie forze; il mio spirito e il mio corpo farò sì che lavorino in simbiosi e quel dono tornerà a me.»

Questo fu il suo proposito, risalente a vent’anni prima (correva l’anno 2002). Aveva in animo di riprendere a far musica, quella che fu costretto ad abbandonare nel bel mezzo della sua adolescenza nel lontano1966, quando appena diciassettenne fu arruolato nell’Arma dei Carabinieri a sua insaputa, dal padre, un uomo tutto d’un pezzo, un maresciallo della stessa Benemerita, cresciuto alla mercé della rigida disciplina che il fascio degli anni trenta imponeva.

«Giuro che alla prima favorevole occasione mi congederò.»

Fu il suo primo rigetto dell’imposizione paterna. Mai avrebbe scelto di darsi alla vita militare; tra l’altro detestava l’uso delle armi e già allora contestava la violenza ed aborriva le guerre nonostante non avesse vissuto esperienze simili essendo nato dopo tre anni dalla fine della seconda guerra mondiale. La sua sensibilità e l’indole mansueta glielo impedivano. Mantenne il suo giuramento e infatti, dopo sei anni si congedò.

Quel giuramento fu per Ignazio una sorta di auto maledizione, perché in aggiunta affermò:

«Non metterò più piede nella mia terra natia.»

Non l’avesse mai detto, forse si sarebbe compiuto per lui un destino diverso e non avverso, avrebbe rivisto la sua terra; avrebbe condiviso con i suoi fratelli e i parenti, con gli amici d’infanzia svaghi, interessi e passioni. Invece niente. In questa terra dove il fato lo relegò è e resta, in una sorta di prigionia, ritornando nel suo suolo natio solo per lutti in famiglia.

La mia vita è preziosa.

Questo era il suo convincimento, mentre la malasorte gli gettava addosso il peso di gravi sconfitte, nonostante Ignazio fosse un guerriero in fatto di esperienze lavorative, carico di inventiva, instancabile, al punto che un giorno pensò:

«Mi son toccate le fatiche di Ercole; tra le dodici da lui affrontate, forse non tutte, probabilmente le più disastranti; ma non posso soccombere… Resisto.»

La resistenza se la progettò addosso dedicandosi in contemporanea alla musica, al teatro, alla poesia e allontanò da sé in tal modo, il pericolo di possibili gravi disturbi psicosomatici. Non trascurando ovviamente gli impegni lavorativi cui era dedito.

Nessuno gli pose la scelta di una terza via; se la costruì in un ventennio e fu quella della vita viva, tra musica e poesia, pur restando nell’ombra.

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(Canne al vento)

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Di Gianni Nachira

E' presto detto: Da lavoratore, una volta raggiunta la pensione, sono riuscito a prendere in mano il sacco dove per anni sono state rinchiuse le mie passioni in campo artistico. Non è stato facile, perché l'età e l'impossibilità di farlo a tempo debito hanno parlato chiaro: "NON PUOI". Al ché io ho risposto: "Ma davvero?" Allora mi sono cimentato a fare teatro, a fare musica. FARE, CREARE, senza mollare e nonostante le difficoltà che la vita ancora oggi mi pone ad ostacolo, proseguo imperterrito sfidando il fato che da quasi sessant'anni mi assegna una sorte avversa. In questo mio sito ho messo insieme una parte di me e continuerò a farlo perché rimanga traccia di una storia di vita forse banale, ma comune a molti.

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