CENNI DI STORIA TEATRALE

Cenni di storia teatrale

CENNI DI STORIA TEATRALE

Teatro, arte teatrale e storia del teatro

Di Gianni Nachira

Più mi addentro nella ricerca di nozioni di cultura teatrale, più mi rendo conto dell’enorme “fatica” che una qualsiasi persona che voglia dirsi “attore”, deve compiere.

L’attore non arriva mai, perché la sua stessa natura, la sua indole non glie lo consentono; L’umiltà di cui è pregno, non gli farà mai dire “Sono un attore finito” (completo). perché, nel momento stesso in cui dovesse convincersi di esserlo, segnerebbe davvero la “sua fine”.

L’attore non può permettersi il lusso della sosta; La sua mente è “costretta” ad un continuo mulinare intorno a nuove cose, a nuove scene, a nuovi progetti, a nuovi soggetti da interpretare.

Anche quando l’attore avrà raggiunto livelli economici elevati per merito delle sue interpretazioni, resterà saldamente legato alla scelta di umiltà culturale, mentre da uomo libero, potrà anche permettersi di evadere affermando di essere “arrivato”, sì, ma ad avere proprietà, automobili e certezze economiche.

Il che facendo, non lo renderà il “presuntuoso” della compagnia, anche se dovrà confrontarsi con altri soggetti che pur recitando parti attoriali, quel livello economico non lo hanno raggiunto.

Alla luce di queste mie considerazioni, indipendentemente dalle questioni economiche, oggi mi mangio le mani, semplicemente perché mi pento di non essere stato attento alla voce dell’arte teatrale che da molti anni si affacciava alla porta del mio voler fare. E decido soltanto adesso, nonostante l’età, di incominciare a “fare” un lavoro su me stesso, imitando per quanto mi sarà possibile, il lavoro che altri, per me Maestri, hanno già fatto, nel tentativo di cogliere buoni insegnamenti.

In questa pagina cercherò di pubblicare materiale didattico che possa essere utile anche ad altri che come me sono alla ricerca di stimoli per entrare nel mondo della recitazione.

CENNI DI  STORIA TEATRALE

Konstantin Sergeevic STANISLAVSKIJ

cenni di storia teatrale

Stanislavskij. Il lavoro dell’attore su se stesso

Stanislavskij. Il lavoro dell’attore su se stesso “Per coloro che non sono capaci di credere, ci sono i riti; per coloro che non sono capaci di ispirare rispetto da sé, c’è l’etichetta; per coloro che non sanno vestirsi, c’è la moda; per coloro che non sanno creare, ci sono le convenzioni e i clichés.

Ecco perché i burocrati amano i cerimoniali, i preti i riti, i piccoli borghesi le convenienze sociali, i bellimbusti la moda, e gli attori le convenzioni teatrali, gli stereotipi e un intero rituale di azioni sceniche.” Stanislavskij, Konstantin Sergeevic (regista russo, 1863-1938)

Innanzi tutto è bene chiarire chi è Stanislavskij.
Nato a Mosca nel 1863 è stato un vero e proprio riformatore del teatro del 900’. Fu attore, regista e teorico russo.
I suoi studi e il suo lavoro sono alla base della recitazione come la conosciamo oggi (metodo Stanislavskij o psicologico), soprattutto quella di attori americani come De Niro o Nicole Kidman (che hanno studiato all’attuale Actor’s Studio).

La sua scuola”Il teatro d’arte di mosca” ebbe i natali nel 1898.

Fondamentali, per la diffusione del suo metodo, sono state le tournèe dal 1922 in Europa e in America: proprio in America verrà aperta nel 1923 L’American Laboratory Theatre, diretta da Richard Boleslawski e Marija Uspenskaja, due ex allievi di Stanislavskij alla scuola del teatro d’arte di Mosca.

Tra i loro studenti spiccheranno proprio quei Lee Strasberg, Stella Adler, Harold Clurman che fonderanno il Gruop Theatre che, dopo la guerrà, darà vita all’Actor’s Studio di elia Kazan, scuola di formazione e perfezionamento per attori.
Il metodo di Stanislavskij si fonda sulla capacità dell’attore di trovare dentro se stesso il personaggio, una profonda ricerca psicologica che porta alla riviviscenza. L’attore riesce a riprodurre un ritmo, una voce e una logica che non sono le sue, ma del personaggio.

Diventa evidente che per lui non esiste la recitazione “d’istinto”, ma è necessaria, da parte dell’attore, una preparazione che parte dalla mente per arrivare al fisico.
La ricerca su se stessi è una parte fondamentale per trovare successivamente la verità delle azioni di un personaggio, e sarà la linfa vitale che ogni volta, ad ogni replica, regalerà forza creativa al prodotto dell’attore.

Per riuscire a riprodurre le proprie scoperte bisogna che il fisico sia pronto a tutto: un attore dovrà studiare discipline come l’acrobatica, la danza e tenere il corpo allenato; il canto poi, e la dizione, gli saranno utili per caratterizzare il personaggio con una voce altra dalla propria. Importante risulta quindi anche il ruolo della respirazione e del ritmo.Il lavoro dell’attore su se stesso è un libro scritto da Stanislavskij.

E’ sotto forma di diario, il cui protagonista è un ipotetico allievo attore che frequenta un’Accademia di teatro. L’opera è divisa in due parti in cui la prima spiega come lavorare con i sentimenti e la seconda è dedicata alla creazione del personaggio.In Italia è stato pubblicato dalla casa editrice Laterza a cura di a cura di G. Guerrieri, prefazione di F. Malcovati, traduzione di E. Povoledo.
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STORIA DEL TEATRO.

(LA FONTE)

UNIVERSITA’ “G. MARCONI” UNITRE DI CATANIA Cattedra di Storia del Teatro e Drammaturgia – Anno Accademico 1995-96 – Libera pubblicazione priva di diritti da parte della cattedra
PREMESSA

Questo scritto non vuole essere un Saggio sul Teatro, scaturito dalla penna di un Critico, o da quella di uno Storico, ma semplice supporto scritto alle lezioni previste dal programma della Cattedra di Storia del Teatro e Drammaturgia.

Esso è frutto di lontane letture e passate esperienze, e si propone, a volo d’uccello, anche come strumento di informazione, sulla Storia del Teatro, a favore di tutti quei giovani e non, che si sono lasciati affascinare, amatorialmente, dalla ” mavaria” delle ” due tavole e una passione”.

L’ORIGINE DEL TEATRO

All’origine del Teatro c’e’ l’ansia umana di relazionare con le divinità ( sacrale), e il bisogno dell’uomo di intessere rapporti con i suoi simili (ludica).

L’animismo e la magia, elementi iniziali delle religioni al loro nascere, coi loro riti, cerimonie e culti, hanno dato inizio alle prime forme reali di teatro.

L’uomo, in balia degli elementi naturali quali i fulmini, le inondazioni, terremoti ecc., ritenendoli manifestazioni del soprannaturale, finisce così per credere agli spiriti, alla sopravvivenza degli antenati ed, infine, agli dei, dando origine al mondo delle immagini nate dal suo stesso cervello.

L’imitazione, la prima maniera d’apprendimento, fa nascere il gruppo mimato (Ha-Ha, He-He), quindi la danza (Hi-Hi). Ma la realtà fa paura all’uomo e lo induce a crearsi esseri fantastici dai quali farsi proteggere; quindi li evoca, li anima, li rappresenta, fino a metterli in scena (Ho-Ho).

La rappresentazione necessita dei riti; la folla vede il mago (Hu-Hu), trasformato dalla maschera, dall’abito e dagli accessori, inventare favole, e ne resta incantata: si forma il culto, le liturgie, coi cori e le musiche.

In seguito il culto degli antenati viene soppiantato dal culto degli dei che presiedono alle forze naturali, alle stagioni, agli astri. E con essi irrompe antropomorfismo, la vita umana che si rispecchia in quella celeste, il quale richiede e determina il sacrificio e la rappresentazione in onore del dio.

Tutto ciò fino all’avvento dei Re. Coi Re si cambia il mito, secondo le necessità del Re e delle classi dominanti. Con questo culto tutta la forma teatrale, profana e sacra, diventa forma di dialogo drammatico. Cosicché, – lasciando dietro le spalle Egina e i suoi concorsi d’ingiurie tra i cori e le donne spettatrici – il teatro, diventa sempre più conquista dello spirito, mezzo di conoscenza, legame sociale,presa di coscienza, ed, in sintesi, specchio della società.

La sua storia comincia dalle ricerche archeologiche e precisamente col ritrovamento di un papiro, nel 1928, da parte di Kurt Sethe, abbiamo saputo che già mille anni prima della nascita della tragedia greca, il teatro si praticava nell’antico Egitto sotto forma del culto dei ” Misteri di Osiride”: Quel papiro era il promemoria del maestro di cerimonie che sovraintendeva al rito stesso.

Dall’archeologia sappiamo anche che la civiltà minoica conosceva l’uso della cetra e del flauto, ciò presuppone che l’arte della danza era già fin d’allora praticata come mimica di azioni di caccia o di guerra, in definitiva era già l’embrione del teatro.

IL TEATRO GRECO.

La nascita del teatro greco si fa risalire ai misteri di Eleusi, di origine egiziana, collegati al culto di Osiride e ricollegati al culto agreste, in funzione al ciclo delle stagioni.

Prima furono messe in scena la vita e le gesta di Dionisio,- il cui culto era improntato ad un frenetico giratondo di satiri avvinazzati e osceni, – rappresentato come dio- vittima, prima , ma poi, con le ripetizioni,- ricordo e commemorazione del dio stesso.

Fino al VI secolo a.C., il canto corale accompagnava da solo tutte le cerimonie, intanto che la lingua di Omero dava elemento stabile alla lingua greca che sarebbe così divenuta l’elemento essenziale del genio greco e del suo teatro.

Dall’epoca dei gerarchi, fino a Solone, 594 a.C., le feste erano accompagnate da cori e danze figurate, primo abbozzo di azione drammatica. Quindi con gli eroi e le loro gesta, le manifestazioni divennero vere e proprie rappresentazioni.

Il Ditirambo e il Gimbico, furono i progenitori dell’Arte Drammatica. Il Ditirambo, coi suoi tumulti orgiastiche, prefigura la Commedia; mentre il giambico, col suo ritmo breve intervallato da uno lungo, era un componimento poetico violentemente polemico e satirico, e prefigura il dramma.

La tradizione attribuisce le prime forme reali di teatro, a Tespi, venuto dall’Icaria, verso la metà del VI secolo, e giunto ad Atene su di un carro su cui trasportava degli attrezzi di scena, gli arredi, i costumi e le maschere.

Tespi ebbe grande successo in tutta la Grecia tanto che fu necessario farlo partecipare alle feste dionisiache che quell’anno erano inaugurate dagli agoni drammatici.

GLI AGONI DRAMMATICI.

Le feste degli antichi greci, le Linee, erano caratterizzati da agoni drammatici, ed erano feste particolarmente rurali e tipicamente locali. Invece le Dionisie, data la loro importanza, erano a carattere panellenico e l’attività’ principale era data dalle rappresentazioni delle tragedie, la cui preparazione avveniva durante i mesi estivi per concludersi con le rappresentazioni vere e proprie durante i mesi invernali.

Nel V secolo detti agoni assumono tutta l’importanza che la storia gli concede, raggiungendo il livello più alto, sia per il prestigio dei grandi tragediografi, sia per la perfezione delle rappresentazioni, che da quella data in poi non vennero più modificate. …Questo magico V secolo a.C., – nel quale l’umanità’ era ancora in fasce – dette uomini illustri non solo all’Antica Grecia, ma a tutta la civiltà occidentale.

( Si pensi che la grande Atene era una citta’ di duecentomila abitanti, di cui solo ventimila cittadini ateniesi e il rimanente schiavi o meteci):

Anassagora, Gorgia, Protagora, Socrate, Platone, Palmenide, Zenone tra i filosofi; Eschilo, Sofocle, Euripide tra i poeti tragici; Aristofane tra i commediografi; Ippocrate fra i medici; Mirone, Fidia, Prassitele, Callicrate, Policleto tra gli artisti; Erodoto, Tucidite, Senofonte tra gli storici; Lisia Iperide, Trasimaco tra gli oratori; Temistocle, Milziade, Cimone, Pericle, Aristide, Alcibiade tra i politici….

In quel periodo il nome dell’Arconte in carica dava il nome agli agoni di quell’anno. A lui i poeti ammessi a partecipare agli agoni, chiedevano un coro.

La messa in scena di un dramma implicava un certa spesa, ed era compito dell’Arconte nominare un “Corego”, cioè un finanziatore, per ogni poeta concorrente. Più il Corego era munifico, più ricca era la rappresentazione e, naturalmente, più possibilità aveva quel Poeta di vincere l’agone; infatti, per detti motivi, l’assegnazione Corego-Poeta, era stabilita dalla sorte. E in quei tempi, il Poeta stesso era regista, compositore, coreografo e interprete della proprio tragedia.

Le tragedie vincitrice erano scelte da giudici, detti Kritai, che erano dei cittadini ateniesi designati tra un certo numero di elementi segnalati dalle varie tribù dei Demos, e scelti dalla sorte in ragione di uno per ognuno dei dieci Demos che componevano la città. I nomi estratti erano posti in un’urna, la quale veniva sigillata e custodita nel tempio di Dionisio, per essere aperta all’inizio degli agoni. Violarla sarebbe stato delitto contro lo Stato, che era punito con la morte o con l’esilio.

L’inizio degli agoni avveniva portando il simulacro di Dionisio Eleuterio in teatro, poi si aprivano le urne, venivano depositati i nomi dei giudici, quindi si procedeva alla lettura del programma delle feste e che avevano inizio, fuori dal teatro, con canti di Ditirambi e Giambi e danze, – dei vari cori delle varie tribù, a cui partecipavano elementi maschili e femminili, -in onore di Dionisio.

Naturalmente le prime file del teatro erano riservate alle personalità della città e un seggio veniva posto al centro della prima fila riservato al sacerdote di Dionisio ( vedi Aristofane: Le rane: prete salvami! Dopo andiamo a cena…).

Le tragedie erano strutturate sotto forma di trilogia: veniva imposto ai concorrenti la composizione di tre vicende drammatiche che dovevano trattare uno stesso argomento ( Edipodia, Orestea ecc), poi, in seguito, per consentire più libertà ai Poeti (che di fatto già se la prendevano), fu lasciato loro libera scelta degli argomenti da trattare, ma fu imposto di presentare anche un dramma satiresco: nacque, così la tetralogia.

Inizialmente l’ordine di rappresentazione era il seguente: dramma satiresco, ripresa di una tragedia antica, tragedie nuove. Nel V secolo furono però rappresentate solo tragedie inedite.

Eschilo introdusse, in quel periodo, un altro attore, portando gli attori a due e iniziando così un vero e proprio dialogo drammatico. In seguito Sofocle ( 449) li portò a tre, e da allora restarono immutati, cioè: Protagonista, deutoragonista e tritagonista. E lo stesso Sofocle introdusse il premio anche per la recitazione.

Gli agoni drammatici furono istituiti, per le tragedie, nel 534, per le commedie nel 486 e trattavano dei conflitti tra l’uomo e gli dei e tra gli individui e lo Stato, e spesso riecheggiavano la problematica del singolo o dell’intera città.

Un dramma rappresentato alla festa di Dionisio, era una occasione unica, alla quale partecipavano intensamente tutti i presenti -attori, coro e pubblico – ognuno a modo suo. Gli attori sostenevano le parti maschili e quelle femminili, e si cimentavano, nel corso della recita, in doppie e triple parti. Il protagonista aveva il ruolo di preminenza e gli altri attori: deutoragonista, tritagonista, pur importanti, dovevano sottostargli.

L’attore tragico antico, nell’immaginario moderno, era una figura imponente, dalla fronte allungata, con occhi fissi, bocca aperta, veste lunga fino a terra, stivali con alte suole. Doveva possedere una voce tonante, ottima dizione, ( i teatri erano grandi fino a ottanta metri) saper cantare.

Questa figura era data principalmente dalla maschera che indossava in scena. Gli attori avevano la faccia dipinta in bianco quando interpretavano le figure femminili e più scura per quelli maschili; i capelli erano biondi per un giovanetto, bianchi per un vecchio, mentre erano neri per un uomo maturo. Il pubblico, spesso, riconosceva il personaggio dalla maschera che egli indossava, cosicché, all’attore bastava un solo cambiamento di maschera e quello di un mantello, per cambiare personaggio.

I costumi erano sfarzosi, a colori vivaci e ornati da disegni vistosi, benché alcuni personaggi vestissero di nero. Maschera, costume e calzatura, tuttavia, non inceppavano l’attore ne’lo trasformavano in una figura statuaria, come fu spesso rappresentato posteriormente. Si crede che lo stesso protagonista addestrasse gli altri attori, insomma facesse il regista della rappresentazione. L’attore protagonista era la “voce” per eccellenza, che giungeva fino all’ultimo gradino del teatro chiara e inconfondibile.

Altro personaggio della tragedia era il coro. Esso era formato da quindici- cinquanta elementi, pagati dal Corego, e quindi composta da semi-professionisti dello spettacolo. La sua funzione era importantissima nell’economia della tragedia: infatti rappresentava più che un interlocutore dei personaggi, la coscienza stessa della tragedia: Egli ascoltava, commentava, si commuoveva, compativa, ma mai decideva.

I TEATRI.

Dei teatri del V secolo, dall’Archeologia, si sa ben poca cosa, perché erano costruiti quasi interamente in legno, tranne l’orchestra e il trono del dio. Skene’, proskene’, theatron, theologeion, erano tutte strutture in legno. I teatri erano dotati di macchine per sollevare gli attori e trasportarli da un posto all’altro della scena, di gru per sollevarli, di funi, sistemi idraulici e anche di catapulte, per effettuare le entrate a sorpresa, sopratutto degli dei.( vedi Aristofane: macchinista, bada!)

Il coro prendeva posto nell’orchestra entrando dalla scena, mentre gli attori entravano da “parodoi”, corridoi incassati ai lati della scena e che rappresentavano l’arrivo dei personaggi dalla città o alla campagna. In seguito i teatri furono costruiti in pietra utilizzando, perlopiù’, i fianchi di una collina che veniva sventrata e lavorata.

( I più significativi reperti archeologici di detti teatri sono ad Atene, Epidauro, Siracusa. In Sicilia, oltre quello già citato di Siracusa, di notevole importanza sono quelli di Taormina, Palazzolo Acreide, Tindari e Morgantina).

Una certa macchina, chiamata ” Ekkiklema”, era deputata a portare fuori, sulla skene’, le scene cruenti che gli attori avevano recitato dietro le facciate dei palazzi o delle regge, presentando poi al pubblico i personaggi già morti. La più antica struttura teatrale conosciuta e’ quella di Poliochni, nell’isola di Lemno, antica di circa tremila anni. Essa era di forma rettangolare allungata, dove gli attori recitavano su un palchetto di pietra.

Al palco iniziale, poi fu inserita una skene’, quindi il proscenio che delimitava il theatron vero e proprio dall’orchestra, dove agivano i cori e i musici. Le scene venivano cambiate a vista, lo scenario era dipinto sul tramezzo della scena. Sofocle lo sviluppò inventando l’arte della scenografia vera e propria (introdusse dei prismi a varie facce, i cui lati, in base alle esigenze sceniche, venivano spostate a vista.).

Le dimensioni del proscenio variavano dai 2,50 ai 4 metri la larghezza per 2-3,50 metri di profondità. In seguito, man mano che il coro prendeva importanza, dette misure furono ingrandite per dare modo di prendere posto anche ai musici e ai danzatori che si univano agli attori in scena. Il suonatore di flauto precedeva le entrate del coro (parados) nell’orchestra, e suonava, durante la rappresentazione, seduto ai piedi del trono dei dio o ai bordi del palco.. I teatri erano perfetti mezzi plastici, ottici e acustici, in cui la sensibilità dell’uditorio veniva soddisfatta (perfetta armonia di poesia e vita-azione).

I TRAGEDIOGRAFI.

Si dice che il pubblico teatrale ha i drammi che si merita, e indubbiamente le opere rappresentate alle feste di Dionisio erano appropriate al pubblico e all’occasione, e traevano materiale dall’esperienza e conoscenza comune alle migliaia di spettatori presenti.

Nei primi decenni del secolo, gli argomenti del dramma erano tratti a volte dall’immediato passato e, a quanto pare, produceva un profondo effetto sul pubblico. Per esempio: Nel 494, la città di Mileto, fu assediata e presa d’assalto dai persiani: gli uomini furono uccisi e le donne e i bambini furono fatti schiavi.

Orbene il tragediografo Frinico, ne fece una tragedia intitolata ” La presa di Mileto”; la reazione del pubblico, secondo Erodoto, fu tremenda: gli spettatori scoppiarono in lacrime e al poeta furono inflitte mille dracme di multa per aver ricordato ai greci le proprie disgrazie.

Eschilo, invece, con ” I persiani”, 472, celebrò la battaglia di Salamina, avvenuta otto anni prima, alla quale partecipò combattendo ( come pure, sicuramente, molti degli spettatori presenti), ed ebbe un successo strepitoso: Pericle ne era il Corego!

La leggenda ( il mito) era la riserva alla quale attingevano i poeti tragici in cerca di trame.

Eschilo chiamò le sue opere: “fette di grandi banchetti omerici”. Ed Omero era la Bibbia degli antichi greci. Il rituale delle religione greca era fisso, ma facilmente compreso dal pubblico, mentre le leggende degli dei erano sempre mutevoli, per cui i poeti erano agenti di quel processo di mutazione. La parola greca ” Poietes”, significa appunto, artefice, creatore, di favole. Da ciò ne consegue che dello stesso argomento, vari poeti, ne traessero storie diverse.

Per esempio: la vendetta di Oreste (Mito di Oreste): Eschilo scrisse le Coefore, in cui fece riconoscere Oreste da Elettra per mezzo della ciocca di capelli sulla tomba del padre e del mantello che ella stessa gli tessé quand’era ragazzo; Euripide, nella sua Elettra, lo fa riconoscere tramite un pastore che l’aveva salvato; mentre Sofocle, nell’Elettra che compose dopo – per confutare Euripide che aveva confutato Eschilo – lo fa riconoscere dalla ciocca di capelli e da un anello che Agamennone gli aveva donato. Come si evince, c’era libertà d’interpretazione e di manipolazione delle storie già abbondantemente note.

Lo schema delle tragedie era così composto: Prologos (ante-discorso, pronunciato, di massima, da un solo personaggio, prima dell’entrata del coro, molto utilizzato da Euripide); Parodos ( marcia del coro che entrava nell’orchestra); Epeisodion ( l’arrivo dell’attore che s’incontra col coro); Stasima (le successive odi corali cantate quando il coro raggiungeva il proprio posto); Exodos ( uscita).

Le parti cantate, secondo alcuni studiosi, erano circa il 40 % di tutti i versi che componevano l’opera. Purtroppo delle partiture musicali, sono giunte fino a noi solo alcuni frammenti.

La causa di tale dispersione, sia dei versi, delle partiture musicali che delle didascalie, oltre naturalmente di intere e cospicuo numero di opere, secondo alcuni e’ dovuto al fatto che nelle antiche biblioteche si sarebbero conservati le opere più rappresentate in quel dato periodo. ( e nel V, IV, III secolo a.C., non esisteva la SIAE che tutelasse l’integrità’ dell’opera, e il diritto d’autore).

A parte la facile battuta, in quel tempo, manipolare i testi, da parte degli interpreti, per motivi di comodità personale, era pressi quasi normale. Ci furono delle leggi di tutela di tali opere, emanate dai legislatori ateniesi. Sembra che sia stato Licurgo ad esigere che gli attori recitassero solo il testo che era stato depositato dagli stessi autori, quando lo presentarono per il concorso (agone), e che era conservato nell’archivio del teatro (strutturato dallo stesso Licurgo, uomo di grandi meriti per tutta la storia del teatro).

Ma, vuoi per le distruzioni dovuti a guerra (incendio della biblioteca di Alessandria), vuoi per l’ignoranza umana ( conquista dell’impero bizantino ad opera dei turchi e dispersione della cultura greca), vuoi per fenomeni naturali, dei testi, considerati autentici, come si disse sopra, ne giunsero a noi poche decine.

E questo fu merito, soprattutto ai grandi grammatici del XIV secolo, che, con un assiduo e competente lavoro di ricerca presso biblioteche greche e mediorientali, seppero fare le dovute cernite, delle Opere studiarle e ben conservarli – spronati e finanziati di principi italiani del Rinascimento – e essi che in seguito, con l’invenzione della stampa, si diffusero per tutta Europa. Naturalmente il lavoro di ricerca e’ ancora in corso e non e’ detto che, da un giorno all’altro, non si rintraccino o scoprano tragedie considerate ormai completamente perdute.

I massimi tragediografi furono:

Eschilo.

Eschilo (525-456) nacque ad Eleusi, a pochi chilometri da Atene, combatté a Maratona e a Salamina, morì in Sicilia, presso Gela , dove s’era rifugiato a seguito della vittoria del partito di Pericle.

Egli ha dato al dramma teatrale le sue leggi rigorose, mettendo al di sopra di tutto la parola, pur lasciando la loro funzione importante alle diverse parti dello spettacolo. Per le sue tragedie sceglie un solo momento culminante del racconto che riguarda un solo conflitto ben definito, tenendolo sempre presente dalla prima all’ultima scena, che conduce inevitabilmente verso la fine aspettata.

L’emozione del pubblico e’ vera e propria “suspence”, tanto più sentita quando si sa già quello che deve accadere. ( Ironia Drammatica)

Gli elementi conflittuali su cui si innesta e sfocia la tragedia sono eminentemente religiosi. Cioè, dalle contese degli uomini con gli dei, discendono tutte le nostre sciagure ( nei Persiani: la sconfitta di Serse fu dovuta dal sacrilegio da lui commesso, costruendo un ponte di barche sull’Ellesponto, dove era signora Elle, ninfa di quel tratto di mare), perché, di fatto, il rapporto tra colpa e pena e’ oscuro e indecifrabile essendo al di sopra degli uomini e anche al di sopra degli stessi dei, il Fato.

Gli uomini, in definitiva obbediscono ad una giustizia superiore e se la vita e’ colma di passioni, di violenze e di sangue, Zeus, il giusto, consente di nutrire speranze.

Ma con Prometeo, ma soprattutto con le Eumenidi, il suo pensiero religioso e filosofico e’ esposto contrapponendo la legge alla giustizia (nuovo ordine cosmico: non più la legge del taglione, ma la legge della giustizia), la forza all’intelligenza, perché malgrado il trionfo di Zeus su Prometeo, il portatore del fuoco e del progresso, Eschilo inferse, forse involontariamente, un grave colpo al prestigio degli dei ( Zeus capriccioso, ingannatore e traditore).

Con l’Orestiade, l’opera più poetica ci sia stata trasmessa dall’antichità’ greca, da un limpido modello di trilogia completa con la sua esposizione, il suo sviluppo e la sua conclusione: Con le opere Agamennone, Le Coefore, Le Eumenidi e col dramma satiresco Proteo, e’ rappresentata la tratralogia-tipo con unico soggetto.

Nelle sue opere non mancano allusioni politiche, specialmente nelle “Supplici” , le cinquanta figlie di Danao (il Re indeciso), e con ” I Persiani” , dove celebra la vittoria di Atene sui persiani, mostrandola generosa coi vinti.

In quest’opera, per la prima volta, introdusse ” il silenzio” come effetto drammatico col personaggio di Atossa, la madre di Serse: – Muta io finor rimasi, a tanti mali attonita; si grande e’ la sventura, che ne’ parlar, ne’ interrogar poss’io. Ma pur forza è a’ mortali soffrire tutto ciò che danno gli dei”-

Nei ” Sette a Tebe” da’ un chiaro saggio di talento drammatico con la potenza della tensione emotiva insita nell’opera stessa. Per primo avrebbe disegnato da se stesso le maschere di scena facendole esprimere la nobiltà greca delle passioni umane. Personalmente avrebbe interpretato i suoi ruoli principali, introdotto le vesti ampie e ondeggianti, scelto i costumi e regolato lo spettacolo fissando la messa in scena. A giudizio di molti, Eschilo sarebbe il più grande dei drammaturghi greci, e per altri il primo Regista in senso moderno.

Sofocle.

Sofocle nacque ad Atene ( esattamente nel Demos di Colono) nel 497 e morì nel 406. Fu molto amico di Pericle e ebbe importanti cariche pubbliche. Egli fu autore felice e fortunato fino alla sua morte ( a circa ottant’anni scrisse Edipo a Colono, per confutare ai suoi figli l’accusa di demenza senile). Sofocle fu il poeta del dolore senza esito e senza senso; il cantore dell’individuo solo ed escluso da ogni ordine cosmico; dell’uomo, simulacro magnanimo d’accettazione eroica, di fronte all’ignoto che macina la sua sorte.

La venerazione del dio sconosciuto e della disperazione per la nullità umana, per lui non sono problemi insolubili, e quando l’incontra tra due piani paralleli, l’umano e l’arcano, geme e si dispera con l’alterezza di Sisifo. Il linguaggio poetico, la sapienza drammaturgica, la potenza del lirismo, dal movimento al dialogo, dalla musica alla metrica, dalle risonanze alle parole dei personaggi, sono il suo segreto piu’ alto.

Il successo come drammaturgo gli arrise con “Antigone”, ma con “L’Edipo Re”, vero modello di classica drammaturgia, capolavoro di tecnica teatrale, raggiunge la massima vetta come poeta drammatico perché felicemente gradua e misura l’interesse scenico dell’opera fino all’orrore tragico della conclusione: vero precursore della moderna drammaturgia. Nelle sue tragedie l’atmosfera non e’ più dominata dalle origini rituali del dramma; il dialogo, sempre poetico, diventa semplice e più naturale, l’azione assume la forma che potrebbe essere già chiamata ” trama” nel senso moderno della parola.

Nelle sue opere la “peripezia e il riconoscimento” sono brillantemente illustrati per essere poi risolte, dopo curve e svolte improvvise, strada facendo. ( Aristotele prende come modello proprio l’Edipo Re, nella sua “Poetica”, trattando la parte dedicata alla tragedia e agli elementi che la compongono.) Scrisse oltre un centinaio di tragedie, ma di esse solo sette sono giunte fino a noi: L’edipodea ( Edipo Re, Antigone, Edipo a Colono), Elettra, Le Trachinie, Ajace, Filottele.

Euripide.

Euripide nacque a Salamina nel 480 e fu amico di Socrate, e scrisse le peggiori tragedie che abbiamo (Gli Eraclidi), ma anche parecchie delle migliori ( Medea, Le Fenicie). Egli, a volte, si avvicina troppo nelle sue opere, alla propaganda politica (Andromaca – vedi la guerra contro Sparta-) che negli anni o secoli successivi diventa noiosa.

Ma fu anche un innovatore radicale e si creò per questo nemici. Iil più. acceso fu Aristofane. Molti dei suoi contemporanei gli rimproverarono il suo scetticismo e la mancanza di rispetto verso gli dei ( nell’Oreste denunzia Apollo, istigatore del matricidio, come un dio crudele, vendicativo e sanguinario) e furono colpi mortali quelli di Euripide, perché, in seguito, neanche il popolo li rispettò più a lungo; altra accusa fu di abusare della filosofia e dell’eloquenza, ma e’ stato attentamente notato che proprio questi presunti difetti consentirono il passaggio dagli dei dell’antropomorfismo di Omero alla spiritualità di Platone. Nelle sue opere, più delle azioni, furono le idee e i sentimenti a determinare il patetico.

Scettico, inquieto, aveva poca fede nei valori civili, fede che si andava esaurendo anche nel popolo, sempre più cosciente del suo stato di miseria, egli resta pertanto, un testimone di un’epoca in cui la societa’, in corso di trasformazione, trascinava gli intellettuali con il popolo, verso una filosofia e una morale nuova, negatrice di antiche credenze. Egli fu un genio, come Eschilo e Sofocle, ma fu un genio che annunziava la decadenza. (infatti la tragedia e lui stesso non sopravvissero alla sconfitta di Atene per opera degli spartani).

Egli fu il poeta della ricerca, e ambivalente nel pensiero: passava nelle sue opere dall’odio per la vita, all’amore per le sue forme; dalla denuncia degli aspetti frivoli della donna, al femminismo esplicito di certe tirate; dalla febbre del sesso, al miraggio della castità, dalla negazione degli dei, alla preghiera purissima.

Si narra che gli ateniesi, prigionieri dei siracusani e posti nelle cave di pietra, ebbero salva la vita perché commossero i vincitori, recitando i versi di Euripide. Dicevamo che Aristofane gli fu nemico e la causa fu il moralismo che il commediografo attribuiva ai poeti e che Euripide ignorava proditoriamente.

Poi lo rimproverava d’aver trascurato gli esempi eroici preferendo nei sui suoi lavori le passioni umane e nelle proprie commedie lo ridicolizzò in modo spietato. In sostanza Euripide ( misogino e misantropo) vedeva gli uomini così come sono (al contrario di Sofocle che li vedeva come dovevano essere).

Euripide scrisse circa novanta opere, ma di esse ce ne sono giunte soltanto diciotto. Le più celebri sono: Medea, Ecuba, Andromaca, Le Troiane, Ifigenia in Tauride, Oreste, Elettra, Le Supplici, (madri di caduti in guerra), Le Fenicie, Ifigenia in Aulide, ecc.

Agatone tragediografo minore ( cori uguali), citato spesso da Artistotele, fu contemporaneo di detti autori, ma delle sue opere non rimangono che pochi frammenti e senza una qualche importanza artistica.

Aristofane.

Aristofane nacque ad Atene (445-384 circa) e fu il genio che della commedia reinventò tutto: il brio, la causticità, l’allegria epica, la cordialità saporita, il vigore della poesia, furono tutti gli ingredienti che arricchirono la sua immaginazione comica, insuperata, che , come nelle tragedie, e’ essenzialmente dionisiaca.

La potenza della sua azione e il suo prestigio erano tali che si poteva permettere di prendere di mira nei suoi lavori, uomini politici, cittadini onorati e persino il genio di Eschilo, di Socrate e di Euripide, e mostrarli ridicoli sulle scene dei teatri. Nessuna minaccia poteva fermarlo e non si preoccupava di nessuna conseguenza, nelle persecuzioni; e il popolo lo amava.

Egli sapeva dipingere in modo magistrale la vita della città i sentimenti del popolo, i suoi amori, i suoi odi, i suoi difetti e appoggiava tutte le sue rivolte e ne giustificava le legittime aspirazioni, contro i demagoghi. ( per esempio: nei “Babilonesi” si scaglia contro il demagogo Cleone; ne: “Gli Acornesi”, pensate che audacia di intuito: fa fare la pace separata tra un contadino e il nemico.

Di lui si può dire che il suo teatro fu di circostanza, ma la realtà umana, così grandemente dipinta, gli ha assicurato l’efficacia delle sue opere nel tempo, fino ai nostri giorni. Nelle sue commedie principali ridicolizza Socrate nelle Nuvole; Euripide, ( beffeggiato chiamandolo figlio dell’erbivendola), nelle Rane e’ ridicolizzato perché lo mette in confronto con Eschilo, facendolo perdere, naturalmente ( si pensi che nell’opera il commediografo immagina un viaggio nell’Ade per prelevare l’anima di Euripide, ma per manifesta inferiorità, ritorna, invece con quella di Eschilo).

Nelle “Vespe” prende in giro la passione degli ateniesi per le liti giudiziarie.

Nella Festa delle donne, le fa infuriare contro Euripide fino a bastonarlo. E con Le donne in parlamento, immagina la pace universale, se a reggere le sorti dello Stato fossero le donne. Ma già con Lisistrata egli aveva ipotizzato l’azione efficace del gentil sesso nell’ottenere la pace tra Atene e Sparta: Lisistrata, infatti, proclama lo sciopero dell’amore fino a costringere gli uomini a fare la pace se rivolevano l’amore delle loro donne.

Egli fu un pacifista e un femminista ante-litteram. La struttura delle sue commedie e’ questa: Prologos ( antefatti) Parodos (ingresso del coro di Dionisio); Agon ( vicende che prendevano spunto dalle gare di strilli); Parabasi ( L’attore, che toltosi il costume apostrofa gli spettatori);

Esodo (uscita generale degli attori rumorosa e scatenata). Platone in un’epigrafe funeraria per il nostro autore scrisse: ” I greci cercando un rifugio indistruttibile, s’imbatterono nel cuore di Aristofane”.

Le sue opere più conosciute sono: Gli uccelli, Le nuvole, Le rane, Lisistrata.

Altro commediografo da citare fu Menandro. Egli fece un teatro ricco di intrighi complicati, di situazioni eccezionali in cui agiscono personaggi medi della media società: vecchi, figli di famiglia, cortigiane, soldati e schiavi, trafficanti, furbi e cinici, tutti impregnati di epicurismo. Una società complessivamente, decadente. Fu, insomma, un artigiano della commedia.

Nel frattempo il teatro vero e proprio, insomma la struttura, si ampliò allo scopo di contenere i sempre più numerosi attori, il coro, i musici e i danzatori che operavano tutti in scena. Vitruvio, un ingegnere militare, ne tracciò i tratti definitivi nel suo famoso ” Trattato d’architettura”

IL TEATRO DI ROMA.

I costumi severi e barbari di Roma non hanno permesso il sorgere di qualcosa di valido che possa annoverarsi come teatro romano, se si eccettua il culto dei Lari (protettori della casa) il verso saturnino accompagnato dalla musica in alcune danze di sacerdoti di Marte, in onore del loro dio, protettore di Roma.

La mancanza di una classe media che caratterizza l’Impero, il brutale contrasto tra i costumi patrizi, dissoluti e violenti e i costumi della plebe cosmopolita, moralmente decaduta, non favorì l’insorgere di un teatro vero e proprio. Sallustio disse:

” Rapinare, divorare, far mercato dei propri beni, desiderare quelli degli altri, calpestare l’onore, la decadenza di qualsiasi pudore, tale fu la vita dei giovani romani.” ( vedere Petronio: Satyricom, personaggio: Trimalcione) E a una simile società, come si disse, spetta il teatro che si merita: spettacoli di circo e violenza.

Nonostante autori come Andronico, Plauto, Cecilio, Terenzio, malgrado Novio e Seneca, malgrado l’indiscutibile gusto per gli spettacoli dei romani, come testimoniano gli affreschi di Ercolano e Pompei (scenografici con maschere tragiche e comiche d’interesse notevole), il teatro latino ebbe poca gloria.

Il contributo essenziale al teatro latino fu dato dalle ” atellane”, che influenzarono il teatro dell’arte e, in seguito, il teatro di tutta l’Europa. Le atellane, dal nome della città di Atella, in Campania, furono introdotte a Roma verso il III secolo a.C., contemporaneamente agli adattamenti delle tragedie greche fatte da Livio Andronico ( ma soltanto nel 90 d.C., Pompomio e Novio dettero inizio ad una forma letteraria vera e propria del genere farsesco, il cui dialogo era stato sino ad allora improvvisato).

Questo genere di teatro, con maschere e costumi, fu praticato dai giovani patrizi, in contrasto con gli istrioni, dai quali vollero distinguersi, non togliendosi la maschera di scena dopo la recita.

L’atellana veniva recitata come il dramma satiresco in Grecia, e i personaggi erano immutabili sotto le loro maschere ( Maccus, Manducus, Dossenus, Pappus, cioè il mangione, il gobbo e furbo, il vecchio sciocco) come classici tipi da commedia dell’arte vera e propria.

Un altro genere era la cosiddetta “palliata”, (da pallium, mantello) e nelle commedie di Terenzio, Plauto e Cecilio, scritte con grande spirito di osservazione critica, i mimi e le pantomime assunsero un certo sviluppo e una certa importanza.

Plauto.

Plauto (254-186) venne a Roma dall’Umbria ed iniziò la carriera teatrale con le atellane. Gli si attribuiscono ben centotrenta lavori teatrali, ma a noi ne sono giunte solo ventuno ( Bacchides, Miles gloriosus, Stichus, Marcator, L’Asinara, Anfitrione ecc.)

Plauto fu un uno dei maestri del teatro per il brio straordinario che non teme neppure la trivialità, e per il grande senso dell’osservazione delle tipologie umane che arricchì frequentando mercati, gli schiavi, i soldati, le prostitute che gli ispirarono gran parte delle commedie.

Egli fu maestro del riso che se ne servì in maniera sferzante, usando i mezzi propri del teatro. Fu abile nell’annodare intrecci e nella capacità di dipingere i personaggi messi in scena in modo preciso. Inventò il cosiddetto “confidente”, quasi sempre uno schiavo nella cui fantasia e umanità si può vedere il precursore di Figaro, di Scapino, di Sgaranello, del “Gracioso” di Lope de Vega. Di Arlecchino.

Le sue commedie avevano un prologo lunghissimo, sproporzionato, era un vero discorso rivolto al popolo sull’argomento della commedia stessa, i dialoghi erano espressi da parole saporite di pura fonte latina, la musica e il canto erano felicemente integrate.

Terenzio (185-159) nacque a Cartagine ed era influenzato dall’elegante cultura greca. Le sue commedie pervenute sono sei ( Andria, Eunuchus, Phormio, Adelphos ecc.) e rispecchiano una sottigliezza e un’eleganza che lo fece favorire a Plauto dal pubblico costituito dalla buona società romana. Non ebbe quindi vasta popolarità a Roma, ma nel Rinascimento tutta la sua opera fu rivalutata e apprezzata, sopratutto da Racine e da Diderot.

I teatri romani furono costruiti intorno al 55 a.C. e, spiega Vitruvio, la maggior lunghezza del proscenium romano era dovuta al fatto che a Roma tutti gli artisti recitavano sul palcoscenico in quanto l’orchestra era riservata ai senatori. L’altezza del proscenio doveva essere di cinque piedi, affinché le persone sedute proprio nell’orchestra, potessero vedere gli attori, stando seduti.

Il teatro si arricchì di decorazioni spettacolari e di carattere grandioso, con arcate, gradinate e “vomitoria” ed erano costruiti, solitamente, su terreno pianeggiante, chiusi o se all’aperto erano protetti dal sole e dalla pioggia dal ” Velarium”; disponevano di gallerie e si integravano perfettamente all’insieme della città, pur conservando la propria autonomia.

I romani facevano uso del sipario, sconosciuto ai greci, e i costumi di scena si differenziavano in base al carattere del lavoro (pallium o toga). I personaggi si riconoscevano da piccoli particolari, esempio da un gioiello una patrizia, da un nastro di porpora una mezzana, dalle orecchie deformate (dagli scapaccioni) un parassita.

Un’ultima annotazione sul teatro latino la si deve fare per Seneca (266 d. C.) delle cui opere, però, nessuna fu mai rappresentata. Le sue tragedie, a differenza di quelle greche, semplici e lineari, avevano un intreccio complicato e ci permettono di credere che questo fosse lo stile della tragedia romana. Le sue opere principali furono: Ercole, Agamennone, Tieste. Medea ed Edipo.

IL TEATRO MEDIEVALE.

Il cristianesimo, – affermandosi come riflesso della decomposizione dell’Impero, contribuendo alla formazione degli stati feudali facendo nascere una nuova civiltà,- impose la sua religione che considerava licenziosi e corruttori del corpo e dello spirito, i residui del teatro pagano ( i primi concili scomunicarono gli attori, le loro famiglie e i loro discendenti).

Soltanto nel IV secolo il concilio di Cartagine mitigò tale rigore. Purtroppo, barcamenandosi in maniera diversa, soltanto pochi mimi sopravvissero, ma questi bastarono per assicurare la transizione del teatro profano: dalle atellane all’epoca dei giullari.

Come il teatro antico, anche quello medievale e’ stato profondamente marcato dalla parafrasi dei responsori tratti dai riti religiosi. Essi erano destinati ad aiutare la memoria del recitante e, per tale scopo, le frasi del Vangelo furono accostate a delle melodie musicali e poetiche.

Le strofe cantate formavano, dapprima un dialogo, poi un piccolo dramma. Sorse così la liturgia drammatica, poi il dramma liturgico, quindi i Giuochi, i Miracoli e i Misteri, per giungere con Gil Vincente, portoghese, agli ” autos sacramentales” di cui, poi, fu maestro Calderon de la Barca. Le recite erano assicurate dalle varie confraternite che, prima recitavano nelle chiese, poi per maggiore libertà d’espressione, nei sacrati e nelle piazze attigue alle chiese.

Il Medioevo italiano non espresse nessun teatro propriamente detto (salvo Machiavelli con la Mandragola, il Bibbiena con la Calandra), ma attraverso i giullari e i mini, d’antica radice atellana, nacque quella forma di teatro che fu chiamata “all’improvviso”. Tale modo di recitare, arricchito dalle esperienze di corte e dalle piazze, consentì di far nascere la famosa Commedia dell’arte ( o dell’improvviso) che ebbe risonanza in tutta Europa.

Quindi partendo dal dramma satiresco dell’antica Grecia, attraverso le atellane, i giullari e la commedia dell’arte, siamo giunti al teatro classico vero e proprio con i grossi nomi di autori di teatro e con opere che non tramontano mai.

IL TEATRO RINASCIMENTALE.

Il quattrocento italiano con l’Umanesimo, rivisse profondamente l’antichità’ avendo per principio base il razionalismo che guidò l’azione dei pensatori, dei poeti e degli artisti. Firenze elaborò le forme della nuova civiltà esaltando la grandezza dell’uomo nel chiaro ordine dell’architettura, dell’armonia dei volumi e dei loro monumenti.

Così il teatro italiano dette origine ad uno stile tutto proprio che s’e’ perpetuato fino ai nostri giorni. Uno stile che eccelle nelle fantasie architettoniche e plastiche della scena diventata statica e che ritrova mobilità nei mezzi della meccanica teatrale sempre più precisa ed efficace.

L’arte, facendo parte integrante della vita pubblica, assunse temi e forme che rispecchiano le nuove ideologie. Gli artisti, studiando Vitruvio e ricercando nuove tecniche, inventarono la prospettiva scenica (con Baldassare Peruzzi). Anche il Bramante vi si dedicò, e un suo allievo, Serlio, inventò le tre scene archetipo per la tragedia, per la commedia e per l’azione satiresca, ognuna con proprie caratteristiche inequivocabili.

Il lusso del teatro di corte attirò anche il Vasari, Raffaello e Giulio Romano, mentre Leonardo da Vinci si cimentò nella progettazione di macchine per gli “Olimpi”, divertimenti in maschera di corte.

Le commedie furono quelle dell’Aretino, dell’Ariosto, del citato Bibbiena e Machiavelli. Ma mentre la corte viveva il proprio teatro nei limiti della tragedia, della commedia e delle “pastorali” senza lasciare grandi tracce, la commedia dell’arte aveva continuato a moltiplicarsi e a perfezionarsi attraverso il successo dei pagliacci ( i cosiddetti Zanni), eredi dei mimi latini che recitavano di città in città.

Questo loro forma di recitazione, detta all’improvviso, conferiva la massima importanza alla recitazione pura e rinnovava la tradizione dell’uso delle maschere o mezze maschere di atellana memoria.

Riepilogando: La commedia erudita, affidata di regola a dilettanti, cresciuta al chiuso, aristocratica, tutta scritta, dal prologo all’epilogo, si smarrì nella storia; mentre la commedia dell’arte eseguita da attori professionisti, vaganti nelle piazze, improvvisata su semplici canovacci che permettevano agli attori di agire secondo il proprio estro, con lazzi, allusioni, satire e scherzi, visse e si evolvette verso la commedia, come dicemmo, classica moderna.

Angelo Beolco, detto il “Ruzzante” (d’allora, sinonimo del nostro monellaccio-rompicollo), dette nuovo impulso alla commedia dell’arte scrivendo dei canovacci ricchi di trovate verbali, d’invenzioni burlesche e di lazzi.

I soggetti raggiunsero la perfezione sviluppandosi in tre parti, preceduti da un prologo e ricchi di peripezie che andavano dal terrore alla buffoneria. I zanni, ben presto, si arricchirono di nuovi personaggi da Scaramuccia a Pulcinella, da Arlecchino a Brighella ecc. ( Il più famoso Scaramuche, Tiberio Fiorilli, danzatore, acrobata e musicista, fu il vero maestro del grande Moliere).

Il prof. Paolo Toschi nel suo libro: Le origini del teatro italiano, sostiene che la culla di tutta la commedia, – sia la cosiddetta dell’arte, che quella detta umanistica ed erudita, – proviene dal Carnevale. Infatti, egli sostiene, e si e’ dimostrato, che le principali maschere che vi agiscono provengono dal carnevale, e dal carnevale trasferiscono nella commedia non soltanto il costume, ma il linguaggio, la scurrilità, la satira, la mimica e le acrobazie.

Secondo il Pitre’, erano tipici del carnevale i lazzi, spesso equivoci, scollacciati e osceni. E ci porta questo esempio: –

” Ora ch’e’ Carnilivari, (dice uno ad un altro) Io mi vesto Ponziu, e tu?”-

…da Pilatu.-

– ” Vasaci u c… a cu’ l’avi ‘nchiappatu!”-

Ancora il Pitre’ ci ricorda la scena carnevalesca della morte dell’asino. La parlata e’ di Modica.

-” Lassu li cannarozza a li parrini,

Chistu p’accumpagnarimi ci dugnu;

Lassu la lingua a li boni vicini.

Pri sparrarimi di Maju finu a Giugnu;

E cci lassu la m…… e li c…….

A la me’ bedda e amabili patruna;

Lassu ‘a testa a lu baruni.

Lassu lu pilu a la monica.

L’auricchi a li nutara,

‘a mmerda a li scarpari,

Lu capistru e li varduni

Ci li lassu a lu patruni.”-

Negli altri stati d’Europa il teatro assunse tinte diverse, ma tutte ricollegate e originate dalla commedia dell’arte.

In Spagna si ebbe il “secolo d’oro” con Cervantes, dal gusto epico e picaresco, ma senza vero movimento drammatico. Lope de Vega fu l’autore, che insieme a Shakespeare si può considerare il creatore del dramma moderno.

Fu un autore fecondo ( debuttò a soli tredici anni) e la sua produzione si aggira a circa 1800 lavori più cinquecento ” autos sacramentales”. Fu di una tale forza creatrice e d’una immaginazione che unita alla padronanza drammatica, al suo indiscusso senso scenico e l’interesse all’azione, che qualche peccatuccio veniale gli si può ben volentieri perdonare (la faciloneria e qualche negligenza in taluni lavori).

Egli, come nessun altro, seppe opporre il comico al patetico, i sentimenti famigliari ai pensieri più alti, le nobili passioni alle miserie degli uomini. I suoi dialoghi erano di una verità e di una vivacità che a nessun spettatore, quale fosse la sua cultura, potesse sfuggirne il valore.

Egli visse lo spirito del suo tempo ( era Re Filippo II) insieme al genio di Gongora, di Tirso da Molina, di Velasquez, e dopo una vita di peripezie e avventura, un anno prima di morire fu consacrato sacerdote.

Tirso da Molina ha interpretato i sentimenti degli uomini, compresi quelli fuori dalle convenzioni ordinarie, sempre con scopi morali, anche quando si e’ ispirato al Boccaccio. Il suo personaggio di Don Giovanni e’ stato imitato da altri grandi autori, fino ai nostri tempi ( Moliere, Byron, Metastasio, Goldoni e Mozart ecc:)

Petro Calderon de la Barca fu un prolifero autore di ” autos sacramentales”, con i quali raggiunse una grandezza mai superata. Le sue commedie, da perfetto cortigiano, trattano di Religione, di Re e d’Onore. Morì ricco, famoso e…prete.

IL TEATRO ELISABETTIANO.

Durante tutto il Rinascimento le recite, spesso, avvenivano nei saloni del signore di turno, alla presenza della sua Corte, con scenografie grandiose e dispendiose, ma, quasi sempre, nei costumi dell’epoca.

Nel seicento, in Inghilterra, si ebbero i primi esempi di saloni pubblici adattati a teatri, con un palcoscenico vero e proprio formato da una piattaforma e un tetto sorretto da due colonne. Il sotto di questo tetto era dipinto d’azzurro, ed era il famoso “cielo” (termine ancora oggi usato per indicare i teloni alti che delimitano la scena).

Dal cielo potevano scendere gli oggetti di scena, mentre gli attrezzi di scena venivano fatte scivolare su rotelle da inservienti o dagli stessi attori, attraverso le quinte, o aperture laterali. Non esisteva sipario, si recitava alla luce del giorno, d’onde la necessità per ogni cambio di scena, l’uscita di tutti gli attori, compresi i morti (tipica la battuta: Portate via questi cadaveri!). Questo teatro e i relativi testi raggiunsero la loro massima dignità con l’entrata in scena del sommo Shakespeare (1564- 1616).

Egli nella sua incomparabile vastità creativa, diede vita ad innumerevoli personaggi, con la capacità camaleontica di calarsi in essi fino ad annullare la sua propria personalità. Ciascun personaggio e’ caratterizzato come se fosse il personaggio principale, con la stessa importanza, con la stessa cura, e chiunque si presenti in scena, anche per un momento, anche l’ultimo lacchè, e’ se stesso e nessun altro, subito identificato da tratti che lo rendono immediatamente riconoscibile ovunque lo si dovesse ancora incontrare.

Egli fu grande per molti versi: la ricchezza verbale, l’eloquenza, la capacità di captare spunti vitali nei dibattiti, la trascinante intensità poetica, la maestria di narratore e di costruttore di storie, la sua superba teatralità, mai superata.

l’invenzione del mondo interiore popolato di un’inesauribile serie di pupi animati, ciascuno contemplato con serenità e ciascuno libero di esporre le proprie ragioni ( nei suoi personaggi non c’e’ mai un eroe veramente fulgido da non avere un punto debole, come pure un furfante così bieco da non accampare almeno qualche diritto alla comprensione).Fu inventore di espedienti e di superbi richiami alla fantasia dello spettatore ( Sogno di mezza estate); spettatore impassibile in Giulio Cesare; umorista grassoccio nelle Allegre comari; e ineccepibile nelle tragedie. autore completo, dunque genio.

Fu il drammaturgo della compagnia ” del Lord Ciambellano”, sotto Elisabetta I; e di quella ” dei king’s Men” sotto Giacomo I. Fondò il teatro “Globo” struttura in legno a cielo aperto. Recentemente in Inghilterra e’ stato ricostruito un teatro del tutto uguale all’antico Globo che porta lo stesso nome.

IL TEATRO CLASSICO E BAROCCO.

Fu Pierre Corneille il creatore del teatro classico con l’opera ” Le Cid”, opera d’ispirazione veramente popolare, e la sua rappresentazione e’ per il teatro francese il più grande avvenimento della sua storia teatrale. Dalla riscoperta della storia di Roma, egli scrisse e dedicò al Cardinale Richelieu, ” Horace”. Scrisse “Cinna” ” Andromede” e ” Nicodeme” opere d’interesse politico. La sua si può considerare opera completa, infatti con ” Psiche’” cantò anche l’amore.

Jean Racine, educazione jansenistica a Port-Royal (quello di Blaise Pascal, per intenderci), dopo aver conosciuto Moliere, dedicò la sua straordinaria intelligenza e il suo temperamento al teatro oltre che alle lettere. A soli venticinque anni scrisse ” La thebaide”, ma il suo genio si manifesta con l’opera ” Andromaque”, tragedia essenzialmente passionale.” Phedre” fu il suo capolavoro. Con ” Berenice” entriamo nel teatro della Ragione.

Jean-Baptiste Poquelin detto Moliere, nacque nel 1622, figlio di un tappezziere di Corte. Giovanissimo si dette al teatro conoscendo la vita miserabile delle piccole compagnie nei giri della provincia francese, prima d’affermarsi definitivamente a Versailles. Egli prese dagli italiano la ricchezza del teatro: l’azione. Gli fu maestro, come già dicemmo, il comico italiano Tiberio Fiorilli, detto Scaramuche, principe degli attori e attore dei principi.

Moliere, prima che autore, fu attore e regista e i suoi lavori, quindi, erano pensati a come dovevano essere recitati e messi in scena: immaginava il ritmo, il movimento, la mimica, l’espressività’. Ogni battuta che scriveva, ogni tirata era pensata prima a come dovevano essere dette, rifacendosi a se stesso e ai suoi più stretti collaboratori del momento, tenendone presente anche le qualità e le possibilità, anche fisiche ( un suo compagno claudicante gli ispirò il personaggio di Bejart nell’Avaro, per esempio, e si pensa, né Il Misandropo ci siano motivi autobiografici).

Egli sapeva cogliere e individuare le fonti vive del teatro ovunque sgorgassero, con le quali arricchiva le espressioni e le creazioni dei suoi personaggi sempre rinnovate, e seppe utilizzare tutte le risorse dei materiali di teatro allora esistenti che uniti all’immaginazione fecondissima ed ad una non indifferenza verso le idee filosofiche, che lo fecero consacrare genio della commedia e del riso, tecnico e grande uomo di teatro. E ne: Il Tartufo, Don Giovanni, e il Malato Immaginario, si ha motivo di ritenere che egli volesse adoperarsi al fine di edificazione umana.

Egli, nella sua grande ingenuità d’Artista, sperava di correggere i vizi umani attraverso la rappresentazione scenica. Forse si rifaceva alla “Catarsi” come fine della tragedia enunciata da Aristotele. Qualche altro ci legge un calcolo politico: ingraziarsi il Re Sole.

Ma, qualunque cosa gli si attribuisca, ad un Grande quale lui era, tutto può essere concesso e tollerato, perché queste attribuzioni sono tutte da verificare e sono soltanto particelle di sabbia nel deserto – che Moliere creò.

Moliere disprezzava coloro che volevano “far risuonare i versi e fermarsi al punto giusto”, cioè i pedanti e imbalsamati autori e attori di allora, pretendendo dai suoi attori una dizione semplice e precisa e una recitazione sobria, naturale. Con la commedia ” L’ecole des femmes” e con gli atti unici riferiti alla stessa commedia:

“Critica alla scuola delle mogli” e ” Improvvisazione a Versailles” egli rompe definitivamente con il teatro classico e con i predetti autori e attori stucchevoli.

Egli scrisse questa commedia- tipo, in cui i personaggi sono vicini al patetico a causa del contrasto tra la loro situazione comica e il loro carattere umano, dopo quella ” La scuola dei mariti”, forse per bilanciare i due sessi.

E le altre due piccole commedie sopra citate per confutare, con la prima, le critiche degli autori, e con l’altra quelle degli attori, dimostrando ad entrambi le categorie chi fosse veramente dalla parte della ragione e dell’arte pura; quale fosse l’intendimento di un poeta: cioè l’arte, sia pure comica, e non il rigido schema dell’opera stessa. E che cosa volesse dire recitare in modo naturale, sobrio e veritiero lo volle rinfacciare agli attori tragici che si sentivano superiori ai comici in virtù della loro arte considerata superiore, cioè la tragedia.

Ma, con la protezione dei Re, Moliere li sbaragliò tutti. Fece recitare pure Re Luigi XIV, assecondandone i capricci e le vanità, nella commedia ” Il Tartufo”, dove gli fece, addirittura, sciogliere l’intreccio.

Moliere, dicemmo, prendeva i soggetti dappertutto e i suoi personaggi sono rimasti nelle nostre memorie perché vivi e concreti: si pensi al Tartufo, il devoto ipocrita; a Dardin, il geloso disgraziato; al don Giovanni, l’ateo libertino. E, per questi ritratti caratteristici in cui si rivedevano spesso anche i potenti e i suoi denigratori, egli più volte dovette difendersi da pesanti accuse che provenivano dalla chiesa e dai vari ” Marchesini”, dai nuovi ricchi, dai pedanti pseudo scrittori e da qualche collega invidioso, scrivendo, come si disse, commedie e libelli di autodifesa. Grazie a lui la comicità assurge allo stesso livello della tragedia.

Friedrich Shiller, (tedesco) che insieme a Voltaire, J.J. Rousseau, Montesqieu e Diderot ( quello del paradosso dell’attore: svincolo dell’attore dal personaggio), fu il fondatore del movimento letterario ” Sturm und Dragg” (tempesta e passione) ed era per una concezione del mondo in cui l’uomo potesse trovare finalmente un suo posto.

Era contro la società germanica dell’epoca e legò tutte le sue opere ai problemi del suo tempo trasferendoli sul piano morale, politico e sociale. Ipotizzò e dimostrò dopo, che l’uomo liberandosi dalle passioni, perviene alla libertà e può partecipare ad un ordine ideale del mondo conforme alle esigenze razionali.

Scrisse pertanto ” Bruto” ” Catilina” ” I masnadieri” ” don Carlos” ” Maria Stuart”, l’opera meglio riuscita perché meglio costruita, in cui trasforma i fatti storici secondo la sua immaginazione emotiva e la sua concezione personale di libertà.

Johann Wolfgang von Goethe fu anche lui un autore drammatico di notevole spessore con il suo ” Faust” (che fu apprezzato dal pubblico popolare per l’intreccio secondario e per l’episodio degli amori tra Faust e Margherita), dal quale Berlioz, Gounod e Schumann trassero dei capolavori musicali. Il suo teatro fu una costante preoccupazione di quello che Rousseau aveva chiamato ” La condizione umana”.

In Italia, poiché lo “spettacolo” aveva dominato la poesia drammatica nel XVII secolo, fu necessario aspettare le opere del Metastasio per poi vedere, nel secolo successivo, il rinnovamento del melodramma e le opere di Goldoni col suo tentarivo di rinnovamento della commedia.

La scena lirica si arricchiva invece anche dalle scenografie del Bernini, Aleotti, Torelli e Carlo Fontana. Pietro Metastasio volle rinnovare il melodramma, in auge nella società di allora, riallacciando questo genere alla commedia sentimentale, ispirandosi a Cornaille. Le sue opere maggiori sono: Clemenza di Tito, Temistocle, Attilio Regolo.

Carlo Goldoni, veneziano, osservatore della vita famigliare e popolare, ebbe il gusto dell’avventura e viaggiò molto prendendo nota dei caratteri e dei costumi dei cittadini delle città che visitava. Tali osservazioni gli servirono per scrivere commedie d’ogni specie e molte farse con naturalezza e spirito comico.

Fu molto abile nell’intreccio ed era in sostanza un ” allegro predicatore”, perché non mancava mai di far morale, pur divertendo, naturalmente. La sua opera prima fu ” Don Giovanni Tenorio”, poi scrisse ” Servitore di due padroni” “La bottega del caffè” “La locandiera” “Il ventaglio” ecc (commedia di carattere).

Scrisse anche moltissimi canovacci per compagnie dialettali veneziane: I Rusteghi, Le Baruffe Chiozzotte, e, in francese, Il Burbero Benevolo. Egli diceva che quando scriveva molte delle sopraddette commedie, che si ispirava al “Teatro”, cioè alla tradizione teatrale; e al “Mondo”, cioè la vita. Da ciò arrivò alla Commedia dei “Tipi” cioè, dei personaggi concreti, senza astrazioni né coralità

La riforma goldoniana del teatro era essenzialmente una riforma rivolta contro la commedia dell’Arte (commedia dell’improvviso) che considerava genere ormai esausto, i cui attori, per strappare l’applauso, usavano forme di comicità grossolane, e dove la maschera dei personaggi, e i personaggi stessi, erano ormai cristallizzati.

Egli contrapposi, quindi, alla commedia dall’intreccio romanzesco, la commedia fondata sul carattere, su un protagonista, denominata “Commedia di Carattere”; e, alla commedia a soggetto, la commedia scritta da un poeta.

Vittorio Alfieri, il cui gusto per la libertà e della ribellione gli fece comprendere il significato della Rivoluzione francese, si fece carico di dare al paese quel teatro tragico di cui sentiva la necessità e la mancanza. Dovette però purificare il suo stile e la sua tecnica, facendoli sobri e snelli, utilizzando l’osservazione delle regole attinenti al teatro, traendone insegnamento e facendone tesoro, perché per sua natura, la sua scrittura era un pochino prolissa. (l’opera più famosa fu il “Saul”).

La riforma goldoniana: Essa era rivolta contro la Commedia dell’Arte, genere ormai esausto, i cui attori, per strappare l’applauso, usavano forme di comicità grossolana e dove la maschere e i personaggi erano ormai cristallizzati.

Egli contrappose alla Commedia dell’intreccio romanzesco, la Commedia fondato sul Carattere, su un protagonista; e alla commedia a soggetto, la commedia scritta da un Poeta. Vedete se è poco! E, naturalmente, si creò inimicizie tali da dover lasciare Venezia e accettare lavoro a Parigi.

IL TEATRO ROMANTICO.

Il teatro romantico, drammaturgico, era ad un livello fortemente inferiore alla grandezza della poesia che il periodo seppe esprimere.

In Francia con Victor Hugo e il suo ” Cromwell”, Alexandre Dumas con ” Henri III et sa cour”, ( messo in scena da Albertin, la cui “guida scenica” pervenuta fino a noi ci informa della precisione e dello stadio del valore della nuova tecnica del palcoscenico), Alfred de Musset con “Lorenzaccio”; Byron e Shelley in inghilterra; Silvio Pellico con ” Francesca da Rimini”, Pindemonte, Vincenzo Monti, Ugo Foscolo ( Saul, Tieste, Ajace) e Alessandro Manzoni ( Il conte di Carmagnola, Adelchi), sono gli autori più noti del periodo romantico.

IL TEATRO CONTEMPORANEO.

La storia del teatro contemporaneo e’ data dal risultato dello stretto legame della letteratura drammatica, come testo, all’arte della rappresentazione, come secondo testo (o sottotesto).

La regia, l’interpretazione, la scenografia, l’illuminotecnica, la musica, hanno assunto fondamentale importanza nella messa in scena di un’opera drammatica, per la perfezione e l’alto livello artistico e tecnico che queste discipline o arti hanno raggiunto.

Nell’Antica Grecia, nel Medio Evo, nell’epoca elisabettiana e in quella del classicismo francese, la messa in scena culminò in un’originalità tale che dette al testo una forma d’espressione perfetta.

Ma nella decadenza, con l’invenzione e l’uso di mezzi tecnici sproporzionati, la messa in scena e’ servita solo a deformare lo spirito delle migliori opere, ponendo il tecnicismo al disopra dell’espressione: il direttore e l’attore, in effetti, si sostituivano all’autore. Nel migliore dei casi lo spettacolo era ridotto ad un’illustrazione del testo che non determinava più l’influenza reciproca e salutare tra la messa in scena, l’interpretazione (la forma) e l’opera drammatica (il contenuto).

Alla fine dell’800, teorici e uomini di teatro discussero su ciò che e’ o non e’ specificatamente teatrale, ciò che e’ l’essenza del teatro.

Adolphe Appia, Gordon Craig, Erwin Piscator, Stanislasky, esercitarono una notevole influenza, condannando le scene di falso rilievo ed il sistema pittoresco sul palcoscenico, sostituendoli con una messa in scena a tre dimensioni, pratica e funzionale che permettesse lo sviluppo dell’azione teatrale.

Max Reinhardt, fondatore del Deutscher Theater e inventore del teatro da camera, nelle sue messe in scena, inaugurò i contrasti di luce e di buio e utilizzò meccanismi complicati su un palcoscenico girevole.

Gordon Craig, con la concezione pura del teatro, libera dalla letteratura, dalla pittura e dalla musica, ma solo basata sull’”anima delle parole”, considera il gesto come l’anima della rappresentazione; le parole come corpo del lavoro; le linee ed i colori come l’essenza della scena; il ritmo quella della danza. Insomma l’autore, per lui, doveva essere contemporaneamente regista, attore, scenografo e bozzettista.

Ora, con simili concezioni del teatro, ci si rende conto che questa tendenza abbia prodotto una ricerca di elementi scenici inediti, spezzando il quadro tradizionale del palcoscenico, della recitazione, della messa in scena e la letteratura drammatica fu schiacciata da tali schemi.

Piscator e Brecht, continuarono su questa strada col teatro epico, ( Piscator, anticipatore di Brecht, ne: Pier Gynt, favola surreale, la mette in scena con circa novanta personaggi e moltissime comparse) politico e didattico. Ma di si parlerà più oltre. Il teatro scandinavo, con Ibsen (palcoscenico salotto) esalta l’individualismo e il socialismo, rispondendo così ad un vasto numero di spiriti inquieti (la Lotta civile: Divorzio e femminismo, esempio: “Casa di Bambola” col personaggio Nora).

In Inghilterra sorgono Oscar Wilde (l’importanza di chiamarsi Ernesto)e Bernard Show ( Candida, La professione della signora Warren, Cesare e Cleopatra e Il maggiore Barbara) risvegliarono il teatro in lingua inglese (detto della quarta parete). Gli irlandesi Synge, Yeats, O’Casey, determinarono il risveglio della coscienza nazionale e della lotta per l’indipendenza irlandese.

Seguirono Noel Coward (Cavalcade), Fry, Osborne (A lei, Wellington), e Thomas Eliot (“Assassinio nella cattedrale”, rievocazione dell’assassinio dell’Arcivescovo di Chanterbury, Tommaso Moro.) che fecero emergere lo spiritualismo e inaugurarono una nuova forma drammatica lirica, che si ricollega al teatro antico. Federico Garcia Lorca e’ il poeta drammatico con più vasta risonanza nel teatro spagnolo ( La casa di Bernarda Alba), e Gogol ( Il revisore, I giocatori ecc.) considerò la Russia metà caserma e metà prigione.

Gorki e sopratutto Cechov rappresentarono nelle scene gli strati sociali miserabili e poveri come denunce sociali. Maiakoshy, poeta della rivoluzione russa invece proclamava: “Il senso del mio teatro e’ fare di un palcoscenico una tribuna.” Con buona pace del teatro drammatico e degli autori liberi.

Da citare sono, inoltre, i francesi Cocteau, Obey e Jean Vilar (teatro tenda)

In America, man mano che venivano definendosi i caratteri originali della nazione americana e della coscienza di affermazione come massima potenza, il teatro – che ebbe origini molto artificiali perché con gli immigrati, formavano una popolazione assai disparata, ed ebbe le caratteristiche di spettacolo da fiera, senza veri legami coi problemi dell’uomo. Vedi Barnum e il suo circo) ne trasse nuova linfa.

Fu Eugene O’Neill il primo a imporre l’unione del teatro alla vita nazionale. Fu inventore del monologo interiore permeato dalle idee di Freud, quindi le astrazioni, le allucinazioni, ed i sogni furono gli ingredienti del suo teatro. La commedia musicale ebbe rilevante importanza nel teatro americano. si pensi ad”Oklahoma”, “West side story” “Poggy and Bess”, My fair ledy e, ultimamente, ” Jesu Cryste superstar”.

Il teatro drammatico americano, sia pure nelle forme originali che vollero dare alcuni autori, come Torton Wilder ( del quale si parlerà più approfonditamente nella “Drammaturgia”, Arthur Miller ( post-ibseniano)e in particolare il simbolismo poetico aberrante e sensuale di Tennesse Williams (La gatta sul tetto che scotta, Un tram che si chiama desiderio ecc.) ha avuto una significativa svolta proprio negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale.

IL TEATRO ITALIANO.

Pur essendo incessante lo sviluppo del sentimento nazionale, in Italia, solo l’unita’ del paese consentì un certo orientamento dell’arte drammatica verso la formazione di un vero e proprio teatro nazionale. Il privilegio del teatro era solo delle grandi città. In quel periodo i più alti ingegni della letteratura sono poeti e romanzieri, perché il teatro, a causa della censura, non godeva di libertà d’espressione.

Dopo il 1872, col Verga, comincia a delinearsi una certa forma di teatro nazionale verista, mentre continua incontrastato il teatro popolare (Morte Civile di Paolo Giacometti) e si ha l’avvicinamento dei tempi in cui Zacconi e la Duse facevano conoscere Ibsen e Tolstoi al pubblico italiano.

Comparve poi Gabriele D’annunzio ( La figlia di Jorio, La città morta, Francesca da Rimini) interpretati da Ruggero Ruggeri, Emma Gramatica e dalla stessa Duse. Poi il teatro di Chiarelli (La maschera e il volto), Rosso di San Secondo, Niccodemi e Fraccaroli. Ercole Luigi Lorselli con ” Orione”, trasporta sopra un piano di pagana carnalità e dissolve con l’ironia, l’intuizione dannunziana della vita (la volontà di potenza e la vita superiore).

Aldo de Benedetti ebbe un rilievo con le commedie brillanti tipo Feyedeau ( Una dozzina di rose scarlatte, Da giovedì a giovedì, ecc.). Anche Marinetti, col suo futurismo ebbe qualche rilievo, come pure Anton Giulio Bragaglia con il suo teatro d’avanguardia. Diego Fabbri e Ugo Betti (Corruzione a Palazzo di Giustizia). Di Pirandello si parlerà a parte.

Dopo la seconda guerra mondiale, ebbe nuovo impulso il teatro lirico, mentre Salvini, Visconti ( che fece recitare la Callas) e Strelher ebbero un ruolo importante nello sviluppo del teatro italiano, con le loro grandi regie.

Gli scrittori e critici teatrali Silvio D’Amico, Paolo Chiarini, Luciano Lucignani e Vito Pandolfi, contribuirono allo sforzo della rinascita.

In quel periodo ebbero impulso i teatri dialettali con veneziano Giacinto Gallina, col milanese Carlo Bertolazzi, col fiorentino Augusto Novelli, col napoletano Salvatore Di Giacomo e Edoardo de Filippo animatore del teatro San Carlo.

IL TEATRO SICILIANO.

Il teatro siciliano e’ ricco di autori dialettali, ma e’ poco rappresentativo in lingua italiana ( esclusi Pirandello e Verga naturalmente, e De Roberto de: Il rosario ). Ci vengono in mente: Luigi Capuana ( U paraninfu); Russo Giusti ( Gatta ci cova, ecc) e Nino Martoglio.

Quest’ultimo e’ il massimo esponente del nostro teatro dialettale. ( con gli attori Musco e Grasso che lo portarono nel mondo, e con i pupari Sapienza e Insanguine che lo portarono nei cortili dei quartieri popolari di Catania)

Egli fu commediografo, poeta e regista cinematografico. Ma eccelse nelle vesti di autore teatrale. Indimenticabili e straordinari sono alcuni suoi personaggi: da Cicca Stonchiti dei “Civitoti in pretura”, a mastro Minucu Miciaciu del “San Giovanni decollatu”; da Cola Duscio de “L’aria del continente”; a Giufa’ de “L’arte di Giufa’”.

Quest’ultima commedia, secondo il sottoscritto, il nostro Martoglio la scrisse per ridicolizzare la nascente arte cinematografica, piena di pseudo artisti senza talento, mirante esclusivamente a provocare le risate del pubblico.

Forse deluso o emarginato, lui vero artista, dal mondo del cinema di allora, – fatto di gente grossolana, senza talento, senza gusto e mancante totalmente di senso estetico,- per cui Martoglio come, diremmo a Catania, con quest’opera volle ” segarsi un corno”. La trama verte sull’imperativo del cinema di allora, di far ridere il pubblico:

Un ragazzo meridionale, credulone, maldestro, ma abbastanza astuto, – il nostro Giufa’-, viene notato da un produttore e scritturato per fare da babbeo in un film da girare sul posto.

Il film ha successo di cassetta, e Giufa’ diventa un divo del cinema (facile accostamento coi divi del momento). Ma, da buon villano, egli assapora tutti i privilegi del suo nuovo stato, e alla fine decide di sfruttare la sua immagine per proprio tornaconto, con grande scorno per la sua casa produttrice dei suoi primi films.

Il motivo della commedia e’ semplice: il cinematografo non fa vera arte, ma sfrutta la dabbenaggine di certi pseudoattori e del pubblico sprovveduto, solo per fare quattrini e basta; mentre e’ il teatro l’ unica e vera fonte dell’arte recitativa. Ma Martoglio oggigiorno forse dovrebbe rivedere la sua posizione, almeno sul cinema sicuramente.

Il cinema ha prodotto e produce vere opere d’arte perché e’ stato abbondantemente alimentato da artisti di grande talento (attori e registi provenienti dal teatro prima, e dai centri sperimentali dopo) e facendo, quindi, un grande salto di qualità (fermo restando i molti casi la produzione di “cassetta”).

Ma il teatro, a sua volta, ha seguito la sua vera inclinazione? Ha saputo mantenere il pubblico? ha saputo reggere il passo nel vasto campo dell’arte? Col teatro sperimentale se n’e’ voluto dare nuovo impulso, si e’ avuta la massima libertà espressiva e scenica, ma, forse a causa dell’eccessiva sperimentazione, si e’ esagerato, e sono venuti fuori velleitarismi, s’e’ politicizzato un po’ troppo, e s’e’ perso di vista il vero senso del dramma, col pubblico che lo ha seguito sempre meno, perché lo ha capito sempre meno.

Con grande rammarico del sottoscritto, penso che una sorte peggiore sia toccata al teatro dialettale ( siciliano e no), che e’ stato automaticamente etichettato come teatro comico e basta. E comiche debbono essere le messe in scena. Ad esempio: Le compagnie amatoriali mettono in programma nel loro cartellone l’ottanta per cento di tale teatro comico, e solo il venti di vero teatro serio, o d’autore, o in lingua, sia del passato che contemporaneo.

Ora, tutte queste messe in scena, – valide, – per carità, anche da un punto di vista storico- culturale; di richiamo alle nostre radici, quasi documentaristiche; quindi utili per le nuove generazioni -ma, come logico, immancabilmente ripetitive, in quanto il repertorio, pur essendo vasto, non e’ proprio infinito, e pur essendo anche, in molti casi, opere gradevoli, rappresentano dopotutto, sempre il passato, più remoto che prossimo.

E poi c’e’ da prendere in considerazione, per il danno che apportano al teatro, i tentativi, spesso maldestri, di alcuni capocomici, che propongono rivisitazione di vecchi testi ( naturalmente già di pubblico dominio per via dei diritti d’autore ridottissimi).

Quindi riproposizione di soggetti vecchi, adattamenti prevedibili, scontate, ammuffite. E poi ancora: elaborazioni imitative di autori locali notissimi (in Sicilia ad esempio Nino Martoglio, sicuri che il pubblico ridanciano le accetti di buon grado).

Il teatro dialettale sarà capace di adattarsi e di recuperare il tempo e il pubblico perduto? E le compagnie locali sapranno rinnovarsi? Forse. Ma attualmente, con buona pace per l’arte, per esempio a Catania, ben trenta compagnie operano coi vecchi collaudatissimi sistemi.

L’unico segno di rinnovamento, fateci caso, e’ rappresentato dallo spettacolo di cabaret, che quasi tutte mettono nel loro cartellone stagionale. Cabaret che, il più delle volte, si esaurisce in skech in dialetto, anche esilaranti se vogliamo, per carità, ma spesso, altre volte, volgari, grossolani, patetici e mortificanti per chi li recita e per chi li ascolta. Uno dei motivi e’ che, come al solito, tutti pensano di saper scrivere di tutto, ed ecco il cabarettista improvvisatore di questo attuale boom, che fonda la sua comicità su quella facile dell’avanspettacolo.

Invece, di ben altro spessore e’ un buon scrittore di cabaret. Egli e’ creativo, satirico, ironico, perspicace, intelligente e sottile umorista. E un autore di questa stazza non e’ così facilmente disponibile per tutto e per tutti. Comunque e’ moda, passerà e chi ha veramente talento durerà.

E frattanto, in attesa di nuovi segnali dal teatro, il grosso pubblico che fa? sta davanti al televisore o in pizzeria.

IL TEATRO ORIENTALE.

Il teatro asiatico, come in altri paesi e popoli, trae le sue origini reali dalla religione e dalle danze rituali. Già nei secoli passati si conosceva un personaggio popolare indù, Vidusciaka e le famose ombre cinesi, nonché le marionette.

Solo nel XX secolo gli europei hanno conosciuto il teatro No e il Kabuki giapponesi. In Cina il teatro testimonia un’immaginazione e una tecnica d’alta cultura e di civiltà. Esso e’ di un’esemplare semplicità sia per il contenuto, sia per lo stile sommamente espressivo.

In questo suggestivo teatro non viene rappresentato nulla o quasi, nel senso che diamo noi al verbo rappresentare; e ciò perché gli accessori, come i gesti e i movimenti, sono carichi di simboli. La stessa scena e’ fatta di segni, ed ogni oggetto utilizzato nello spettacolo può avere uno o più usi. E’ sorprendente la perfezione raggiunta da tale repertorio di parole, canti, gesti e colori.

Il teatro Kuen-kiu ha dei testi che sono in versi e in prosa. I testi classici hanno lo scopo di tramandare e preservare le tradizioni nazionali di onore, intelligenza, lavoro e di resistenza all’oppressione.

Le superstizioni sono vive in quel teatro; persino la brutalità e l’oscenità’ non sono escluse, poiché esprimono la verità delle leggende e dei miti conosciuti anche dal popolo illetterato, che con la raffinatezza e la sapienza dei simboli e delle regole, che conosce perfettamente, ne segue le vicende con grande interesse, senso critico e comprensione.

Il teatro giapponese nasce con il Dangaku, rappresentato nei templi e che dette origine al teatro No nel XIV secolo, ottenendo quel successo che durò fino all’apparire del teatro Kabuki.

Il teatro No presenta un’azione molto condensata ed e’ espressa in funzione dei mezzi scenici offerti dal testo ed in funzione delle figure e delle danze. L’equilibrio a cui e’ pervenuta questa forma d’espressione teatrale, la sua unità plastica e ritmica, ne fanno uno spettacolo letterariamente e scenicamente perfetto. Ciò spiega l’interesse per questo teatro mostrato dagli artisti europei.

Il No comprende due ruoli principali: lo Shite, sempre mascherato che contemporaneamente recita, danza e canta e il Waki, suo antagonista. Il palcoscenico e’ quadrato, libero e vi si accede dal davanti e da un balcone, ove prende posto il coro. Sullo sfondo, dietro il balcone, vi e’ un simbolico pino.

A sinistra e a destra prendono posto i suonatori. Sempre a sinistra vi e’ un ponticello con balaustra, simbolico come il pino già detto. La mimica del No e’ regolata da una rigorosa coreografia di cui ogni gesto e movimento e’ estremamente stilizzato ed ha un preciso senso per lo spettatore.

Il teatro Kabuki, la cui nascita si può datare intorno al 1624, diventò presto un teatro romanzesco, burlesco, erotico con delle regole gerarchiche rigide: l’attore principale e’ il signore assoluto della compagnia Kabuki.

Il suo repertorio formato da lavori storici, sociali e realistici la cui realizzazione e gli effetti scenici sono accuratamente preparati e realizzati, mira alla conservazione dei costumi. Oggigiorno il No si rivolge ad un pubblico ristretto, mentre il kabuki, che ha subito l’influenza del teatro occidentale, si è adattato a spettacolo moderno per tutte le classi sociali.

(Cenni di storia teatrale)

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