canto del servo pastore

CANTO DEL SERVO PASTORE

canto del servo pastoreDue uomini, la Sardegna. Due storie diversamente simili. Uno sceglie di viverci, l’altro invece vi è costretto. L’uno investe sulla propria pelle un futuro fatto di campagna e musica, l’altro vive un dramma, il suo. Entrambi poeti e cantastorie, cantautori, raccontano la vita, l’esistenza umana, le vicissitudini della gente di strada, quelle dei poveri e dei disadattati.

Raccontano storie dei perseguitati dalla giustizia ingiusta dei tribunali, dalle razzie del fisco; e ci sono storie di prostitute, di amori impossibili, di vite spezzate. C’è pure la Sardegna da raccontare; entrambi lo fanno affrontando temi, anch’essi diversamente simili.

Due uomini che hanno conosciuto l’efferatezza della delinquenza locale; l’uno colpito dall’anonima sequestri (1979), l’altro da una non meno pericolosa banda di malfattori (1986). L’uno se ‘è scampata con mesi di prigionia e con il pagamento di un considerevole riscatto; l’altro ha subito lo scacco perdendo un’azienda che incominciava a fatturare cifre davvero importanti. 

canto del servo pastore

L’uno ha visto i suoi carcerieri finire in carcere e condannati da un tribunale; l’altro costretto al silenzio pena la morte se avesse denunciato il fatto. Oggi lo racconta, ma l’aveva già fatto a suo tempo con denuncia presso l’Arma dei Carabinieri. Il suo però non era un sequestro; era, per loro, una semplice truffa e le minacce di morte non erano perseguibili, salvo prove inconfutabili. Gli atti intimidatori si sono protratti per un trentennio, a sorpresa e mai una prova possibile.

Facciamo i nomi degli attori? Ma sì, sto parlando di Fabrizio De André e di me, Giovanni Nachira. Cosa ci accomuna? Beh, più sopra l’ho detto ed è più che sufficiente. Quello che seguirà, invece ha ben altro costrutto e vuole entrare nel merito di una conoscenza, pur se relativa e approssimata, degli usi e costumi del popolo Sardo

Relativa e approssimata, perché nonostante studio ed esperienze, né io né De André possiamo vantarci di aver compreso la realtà sarda, le vicissitudini di un popolo sin da ere lontane soggetto a invasioni che ne hanno cangiato almeno in parte la loro originalità, nonché l’etnia e perché no? anche la lingua. Sto infatti considerando quello che può essere stato causato da oltre un millennio di invasioni, con gente d’altra etnia che si è stabilita definitivamente in quest’Isola, procreando qui, presumibilmente anche con uomini/donne nativi/e, con il risultato abbastanza influente circa la conservazione dei caratteri etnici del popolo Sardo.

Questo però avviene ovunque nel mondo e l’antropologia contemporanea osserva i risultati relativi ai cambiamenti dei caratteri somatici, della cultura, nonché degli usi e costumi; un tutto che si sta via via uniformando.

Noi poeti, però abbiamo un nostro criterio con cui agiamo e pensiamo e lo facciamo attraverso l’uso della parola, o meglio dei versi buttati lì senza troppa cura, nella spontaneità di un sentire uscente dal cuore, dal sentimento che si fa voce suadente, calda, seducente. Quel “senza troppa cura” dà l’idea dell’improvvisazione, ma i versi sono il frutto di una meditazione profonda, antica, assunta come rimedio a un malessere che è della gente, ma che facciamo nostro, soffrendo.

LA VOCE

De André lo ha fatto e l’indiscussa sua poetica lo afferma e lo conferma. Ovunque la sua voce sia giunta nel mondo, ha suscitato forte emozione, ha trafitto il cuore della gente, l’ha sedotta la gente, con i temi delle sue liriche, tra note e voce di canto profonda.

Io l’ho fatto, ma la mia poetica è pressoché sconosciuta; la mia voce è pressoché sconosciuta. L’ho fatto in anni di silenzioso urlare parole che denunciano il disagio della povera gente e sono poesie (troppe a dire il vero), la cui finalità è quella di restare tali: voce senza musica.

L’ho fatto componendo anche liriche poetiche, un centinaio, canzoni scritte senza l’ausilio di altri poeti; L’ho fatto da cantautore, in assoluta solitudine, poiché intorno a me nessuno s’è stretto a cerchio per sostenermi, per suggerirmi versi o melodie da mixarsi nelle mie canzoni.

Ciò dimostra che la vita in Sardegna per chi viene da fuori non è facile, poiché l’accoglienza non è delle migliori per chi non porta con sé un pacchetto di fama o di denaro. Davanti alle difficoltà di “unu istranzu” il sardo non c’è, io non l’ho trovato, mentre da parte mia, nei limiti del possibile ho sostenuto gente, ho dato lavoro, ho aiutato, ho donato, generosamente.

Tuttavia sono qui, impossibilitato ad andare via, ma non sarei andato via ugualmente, pur avendone i mezzi economici per farlo. La Sardegna è come la donna di cui ti innamori… non la lasci. Non l’ha lasciata De André che se ne era innamorato già anni prima di stabilirsi qui. Il suo amore per quest’Isola è stato spontaneo, in buona parte ricambiato, mentre a me è costato una fatica di non poco conto.

IL SENSO DEL TRAGICO

Più mi inoltro nel percorso conoscitivo di De André, più mi accorgo che tra il nostro scrivere e il nostro pensare c’è un’enorme affinità, al punto che, se fosse ancora in vita, cercherei di instaurare con lui una forma di dialogo in un profondo scambio di vedute. Gli chiederei il perché del senso tragico della sua poetica, quel senso che sembra gli sia stato cucito addosso e che non è un vestito, o una maschera, ma il vero volto, l’autentico volto che rispecchia i tratti di un cuore o meglio di una mente aperta alla visione del male che affligge l’umanità. Sicuramente lui girerebbe a me la stessa mia domanda e il tutto si concluderebbe, sono certo, con un silenzio di piombo, mistico, arcano.

Ma lui non è più qui, per cui finisce la storia.

Ci sono canzoni, mie e sue che hanno molto in comune; sono delle perfette denunce del malaffare a tutti i livelli sociali, di politica, di governo. Ce ne sono altre che riguardano la vita in Sardegna, i drammi della gente Sarda. L’ho scritto altrove, ma qui chiamo soltanto il titolo della sua “DISAMISTADE” e della mia “SAMBENE

Quella di cui voglio parlare oggi ha titolo “Canto del servo pastore”. Un classico di De André considerato uno tra i grandi versi del suo notevole poema.

Avete mai fatto caso alla particolare forma dei versi di questo canto? E avete mai considerato che se non fosse per il titolo nessuno penserebbe che si stia parlando dei pastori della Sardegna?

Ecco! Si potrebbe chiamare “Qual è la direzione, ma si confonderebbe con la canzone di Adriano Celentano dall’omonimo titolo. Allora proverò a chiamarla…

NOTTE SOLA (canto del servo pastore)

Dove fiorisce il rosmarino
C’è una fontana scura
Dove cammina il mio destino
C’è un filo di paura
Qual è la direzione
Nessuno me lo imparò
Qual è il mio vero nome
Ancora non lo so

Quando la Luna perde la lana
E il passero la strada
Quando ogni angelo è alla catena
Ed ogni cane abbaia
Prendi la tua tristezza in mano
E soffiala nel fiume
Vesti di foglie il tuo dolore
E coprilo di piume

Sopra ogni cisto da qui al mare
C’è un po’ dei miei capelli
Sopra ogni sughera il disegno
Di tutti i miei coltelli
L’amore delle case
L’amore bianco vestito
Io non l’ho mai saputo
E non l’ho mai tradito

Mio padre un falco, mia madre un pagliaio
Stanno sulla collina
I loro occhi senza fondo
Seguono la mia Luna

Notte notte, notte sola
Sola come il mio fuoco
Piega la testa sul mio cuore
E spegnilo poco a poco

Allegoria o ermetismo? Nessuno dei due. O entrambi. Trovatemi allora un verso, dico uno che faccia emergere la figura del servo pastore in quanto tale, stante anche il fatto che una siffatta figura tipica della Sardegna è raro trovarla in altre Regioni d’Italia. La pastorizia altrove era ed è un’attività condotta dal pastore, imprenditore, che porta lui al pascolo il sup gregge.

Analizzo:

Dove fiorisce il rosmarino
C’è una fontana scura
Dove cammina il mio destino
C’è un filo di paura
Qual è la direzione
Nessuno me lo imparò
Qual è il mio vero nome
Ancora non lo so

De André inquadra il luogo, non una Regione. Si sappia che il rosmarino viene coltivato nelle regioni mediterranee, adriatiche, ioniche, insomma in tutta l’Italia. Una fontana, perché scura? Di fatto le fontane sgorgano acqua e là dove c’è acqua vi è pure il verde. Ma scura deve fare rima con paura.

Accettabile la ricerca della rima per un poeta, ma per De André è scura perché il tema della poesia che ha in mente ha un senso tragico. Il soggetto della poesia percorre la strada assegnatagli dal destino; non conosce la direzione, cioè non sa neppure dove sarà condotto perché nessuno glielo ha imparato.

Ecco, si potrebbe pensare a un chiaro elemento che individuerebbe la Sardegna per via di un lessico improprio, fuoriuscente dalla traduzione in italiano di una parlata sarda. Per esempio Imparau letteralmente il sardo lo traduce imparato nel significato più pertinente di insegnato. Io ci vedo piuttosto una volontà espressa di De André nell’utilizzare “imparò anziché insegnò, che avrebbe rispettato ugualmente la rima e accento, utilizzando un verbo nella sua forma più corretta. Il suo intento? Ambiguità o ingenuità? Sicuramente un riferimento al luogo, la Sardegna dove egli si era trasferito.

Perché l’individuo non conosceva il suo nome? Anche questo è un chiaro richiamo alla Sardegna, ma chi può comprenderlo? Chi può immaginare che si tratti di un “servo pastore”?. Solo chi è a conoscenza di come si svolgeva anticamente la pastorizia.

In un mio romanzo ho provato a descrivere la condizione di vita cui è sottoposto il servo pastore in Sardegna. Il romanzo in questione è “L’uomo del marciapiede”. Evito qui una lungaggine che mi porterebbe fuori argomento e riprendo l’analisi.

interpretazione

Quando la Luna perde la lana
E il passero la strada
Quando ogni angelo è alla catena
Ed ogni cane abbaia
Prendi la tua tristezza in mano
E soffiala nel fiume
Vesti di foglie il tuo dolore
E coprilo di piume

Ci troviamo di fronte a versi allegorici e cercherò di dare una mia personale interpretazione.

La luna che perde la lana? Difficile interpretarlo questo verso, o meglio, si apre a significati diversi. Per esempio considero che De André abbia paragonato la luna, bianca e piena ad una pecora che, quando perde la lana assume un colore più scuro il colore della pelle. La luna che perde la lana è la pecora che va a nascondersi nel suo cantuccio dell’ovile e si perde alla vista del pastore. Il buio della notte è un segno tragico. Il passero non vola, i cani abbaiano e l’angelo è in catene. Il poeta suggerisce al servo pastore di gettare via la tristezza e di dimenticare il dolore. Impossibile. Il servo pastore convive con la sua realtà di asociale, di isolato dal mondo.

Sopra ogni cisto da qui al mare
C’è un po’ dei miei capelli
Sopra ogni sughera il disegno
Di tutti i miei coltelli
L’amore delle case
L’amore bianco vestito
Io non l’ho mai saputo
E non l’ho mai tradito

E’ risaputo che l’olio di cisto è curativo di alcune malattie del cuoio capelluto, ma da qui a riferirlo alla vita del servo pastore ce ne passa, eppure De André non si mette scrupoli e scrive i versi che spesso lasciano perplesso il lettore. Capelli fa rima con coltelli ma non c’è rima con mare. C’è però la transumanza che nella stagione calda fa scendere le pecore sino al mare incontaminato d’altri tempi, in cui le spiagge non erano frequentate come lo sono oggi. Allora il bestiame era padrone incontrastato della natura.

Il servo pastore

Il servo pastore conduce una vita solitaria, abbiamo detto e non può pensare di farsi una famiglia, per cui non conosce casa, e neppure “l’amore bianco vestito”. Allegoria sublime e il poeta se la cava molto bene nel descrivere l’amaritudine di un uomo che non può neppure pensare a un matrimonio; il suo mestiere non glielo consente.

Perché De André fa dire al servo pastore che non ha mai tradito? Se non è sposato perché gli mette in bocca il verso? Probabilmente è al corrente di quel che accade nella società di chi sta meglio di lui: casa, lavoro migliore, matrimonio e… amori altri, frutto di reconditi desideri della carne.

Mio padre un falco, mia madre un pagliaio
Stanno sulla collina
I loro occhi senza fondo
Seguono la mia Luna

Notte notte, notte sola
Sola come il mio fuoco
Piega la testa sul mio cuore
E spegnilo poco a poco

Il ricordo di un padre o di una madre per il servo pastore si perde, perché ancora fanciullo viene destinato a vivere allo stato brado, in compagnia del bestiame. Ecco che la madre è il suo giaciglio, il pagliaio dove trascorre le sue notti e il padre è il falco che svolazza sopra la sua testa, libero, l’avvoltoio in cerca di preda: genitori che non hanno occhi e che non vedono la sofferenza del disgraziato.

L’invocazione del servo si rivolge alla notte, anch’essa solitaria e silenziosa; così la immagina, sola, come il fuoco che di notte accende per cercare calore. Chiede alla notte di posare il capo sul suo cuore; ha bisogno di sentire amore che gli venga da qualche parte; si illude, ma non c’è verso che il suo destino cambi. Pian piano il suo fuoco si spegnerà, la morte alfine lo spegnerà poi di una vita di prigionia trascorsa in libertà tra valli e monti di una terra scura, la sua.

 

canto del servo pastore Titolo della canzone di De Andrè – Canto del servo pastore, titolo omonimo dell’articolo)

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Di Gianni Nachira

E' presto detto: Da lavoratore, una volta raggiunta la pensione, sono riuscito a prendere in mano il sacco dove per anni sono state rinchiuse le mie passioni in campo artistico. Non è stato facile, perché l'età e l'impossibilità di farlo a tempo debito hanno parlato chiaro: "NON PUOI". Al ché io ho risposto: "Ma davvero?" Allora mi sono cimentato a fare teatro, a fare musica. FARE, CREARE, senza mollare e nonostante le difficoltà che la vita ancora oggi mi pone ad ostacolo, proseguo imperterrito sfidando il fato che da quasi sessant'anni mi assegna una sorte avversa. In questo mio sito ho messo insieme una parte di me e continuerò a farlo perché rimanga traccia di una storia di vita forse banale, ma comune a molti.

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