RACCONTI BREVI

RACCONTI BREVI

(di Gianni Nachira)

L’EVASO

L’evaso

Finalmente sono libero. Adesso devo stare attento che se mi trovano sono guai. Ma dove posso nascondermi? Conciato come sono la gente potrebbe prendermi per un vecchio coso e mi prenderebbe a calci, o potrebbe usarmi per altri comodacci suoi. No! E meglio che non mi faccia vedere neppure dai bambini… Mi farebbero rifare le cose che ho fatto e a nulla varrebbe l’essere evaso.

Ormai però sono davvero vecchio e questa consapevolezza mi mette pensiero e preoccupazione. Ma è possibile che ancora oggi, dopo secoli di spettacolo, ci sono produttori e registi che preferiscono tipi come noi? Facile fare spettacolo così, del tutto gratuito dove gli attori non percepiscono compensi in denaro, né vitto. L’alloggio, si, quello non manca e le nostre trasferte sono eseguite con estrema cura… Almeno alla nostra salute produttori e registi ci tengono.

Personalmente ricordo che nella mia lunga carriera sono stato rigenerato almeno quattro volte e ogni volta mi sentivo bello, giovane, ringalluzzito e recitavo le mie parti con rinnovato entusiasmo e vigore. Quanti applausi colti e quanti bambini mi hanno chiesto il bis. Una sera a una bambina che voleva rivedere lo spettacolo per la terza volta non fu possibile accontentarla perché il regista le disse di no.

Che pena vederla piangere quella pupetta; Mi si spezzò il cuore e, nel mio intimo, commosso com’ero, sperai tanto che al regista gli si addolcisse il cuore e cedesse al desiderio della bimba. Avrei recitato soltanto per lei se il regista me lo avesse permesso, magari per soli dieci minuti. Ma niente. Il regista fu l’orco quella sera.

Adesso non so, non so davvero cosa ne sarà di me dopo 120 anni di interminabile teatro e per giunta sono fuggito via senza aspettare domani, il giorno stabilito per la mia rigenerazione. Sarei stato sottoposto a intervento chirurgico nel laboratorio della compagnia, mi avrebbero tolto la vecchia pelle e mi avrebbero ridato i colori del mio tempo migliore.

E oggi, se qualcuno mi dovesse vedere, non mi prenderebbe per il clochard che sembro, sudicio, senza il mio solito e bel vestito addosso. Ma si, cosa importa in fondo? Alla mia età di che mi preoccupo; E poi, sarà vero che sono evaso? Ah, questa era la mia intenzione. Mi sto convincendo invece, che il mio regista si sia stancato di me e mi abbia gettato via per disfarsi di un oggetto oramai inutile, troppe volte ristrutturato e che forse non avrebbe retto all’ennesima operazione di rigenerazione.

Già, spesso dimentico che sono soltanto un burattino.

(Questo racconto, è il frutto di una improvvisazione di scrittura, partorito con l’intento di farne una scena teatrale, in monologo, dove l’attore è il burattino che racconta un pezzo della sua vita, della sua storia e lo fa con il sentimento e lo spirito di uno che ne ha viste fin troppe, per cui si lamenta, uno per tutte, definendo orco il suo regista. Il che la dice lunga su quante storie brutali potrebbe raccontare, se volesse farlo.)

(di Gianni Nachira – 17 Marzo 2015 – tutti i diritti riservati-)

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 NOTTI BIANCHE

Notti bianche

Per un attimo, solo per un attimo ho guardato su, nel cielo. La luna non c’era lì, la sua palla di luce non c’era.. La mia notte non era ancora incominciata, eppure sentivo dentro me un indefinibile senso di timore. Non sapevo a cosa attribuire quella sensazione, anche se, in fondo, c’era in me la consapevolezza che quella notte sarebbe stata diversa, allucinante, straordinaria, stupefacente. Il richiamo era davvero forte, più forte delle altre volte.

Solitamente sentivo il bisogno di recarmi nella piana erbosa giusto fuori porta e, puntualmente, assistevo a uno spettacolo sopra il mio cielo, sopra la mia testa. Quella notte no, quella notte più che una sensazione c’era in me uno sprono che mi veniva suggerito con la forza della persuasione mai provata prima, mediante un comando perentorio, cui non potevo, pur volendolo, sottrarmi.

Sapevo chi, ma non immaginavo come sarei stato avvicinato. Già, perché questa era la sensazione dalla quale mi sentivo pervaso, come se quel richiamo fosse dovuto a un legame molecolare inscindibile avvenuto per unione di due atomi di natura diversa.

Altre volte era un bagliore che attirava la mia attenzione, soltanto un bagliore, però mi avvinceva, mi incuriosiva, mi appassionava, mi attraeva. Tornavo molte volte in quel luogo, sempre di notte, con la speranza di poter rivedere lo spettacolo. Notti bianche, lunghe, interminabili, le trascorrevo in piedi, immobile, come statua. Notti senza riscontro, senza visione, senza bagliori.

Ma io non avevo dubbi, percepivo quasi come fosse un messaggio cifrato che si fissava nella mia mente, il richiamo proveniente da chissà quale galassia, da quale nucleo di esseri viventi d’oltre terra, indefiniti ancora. Sapevo di essere al centro delle attenzioni da parte di esseri di questo nuovo mondo, a me sconosciuto.

Avevo pure maturato la convinzione che non fosse affatto pericoloso un eventuale contatto fisico con quelli che oramai mi ero abituato a definire Ufo. Ma il timore comunque suggeriva cautela, forse per uno spirito di conservazione. Del resto, nelle notti in cui il bagliore si mostrava ai miei occhi, sembrava lo facesse per farmi compagnia, per distrarmi, per divertirmi.

Infatti, le circonvoluzioni erano spettacolo puro sì da lasciarmi stupito, da tenermi avvinto, senza che mi rendessi conto del tempo che trascorreva inesorabile per fare posto a bagliori di diversa fattura, ai bagliori dell’alba. Il tempo della verità, me lo sentivo, stava per giungere. Sarebbe giunto quella notte.

Come al solito, il luogo dell’incontro era deserto, avvolto nel silenzio, in un sacro, mistico silenzio, avvolto nel buio più totale. Poi, d’improvviso una palla di luce nel cielo. Non era la luna. Se di luna si fosse trattato, la sua massa corporea si sarebbe stabilizzata nel cielo, fermandosi… secondo la vista d’occhio umano. Quella che inizialmente era giusto una palla nel cielo, in una manciata di secondi aveva assunto una dimensione notevole e diveniva sempre più grande, man mano che si avvicinava al suolo terrestre.

La vidi, questa volta da vicino, molto vicino; Secondo un calcolo in approssimazione il suo ellisse era di 50 metri, un colosso volante, il cui fuoco era costituito da una gigantesca cupola che proiettava verso il cielo un fascio di luce potentissimo, in perfetta verticale. La vista di quel “coso” non mi impressionò, bensì mi avvinse.

Ero interessato a scrutare l’oggetto per fissarne a mente forma, colori e luci. Ero curioso di scoprire per quale arcano quell’oggetto restava sospeso a 2metri da terra, in perfetto equilibrio, immobile, silenzioso. La visione durò attimi, poi si spense e divenne invisibile. In meno che non si dica, ebbi la percezione di presenze intorno a me. Spiriti? No, pensai. Erano Ufo, quelli che pur senza convinzione definii tali, giusto per attribuire loro un nome di specie.

Con il solo stimolo della percezione, mi lasciai condurre docilmente; anzi, avanzai nell’oscurità più totale verso l’oggetto invisibile, sospinto da una forza di attrazione lieve, costante, continua e mi resi conto che non mi sarebbe stato possibile cambiare direzione. Fuggire? Dunque, no; m’era impedito.

Quando giunsi dove la forza di attrazione mi condusse, essa cessò, per lasciare il posto a una tepida corrente d’aria che mi avvolse e mi sollevò. Mi ritrovai all’interno di un ambiente lievemente illuminato da una luce che rendeva gli oggetti bianchi, totalmente bianchi, tutti bianchi… e non c’erano ombre d’oggetto o di essere vivente proiettata da qualche parte.

La corrente d’aria mi tenne avvolto per un tempo, quasi come che volesse farmi da guida, per farmi conoscere il posto in cui mi trovavo. Poi mi posò supino su una panca simile a un tavolo stretto e lungo, con il piano morbido pur senza imbottitura, accanto a un’identica panca, vuota. Non c’era tempo per i pensieri.

Tutto si svolgeva con un coinvolgimento totale e immediato dei sensi, per cui null’altro, se non vedere e fissare a mente quello che mi era concesso di vedere. Mi sorprese invece -e non poco- quello che si stava presentando sotto i miei occhi. Un corpo bianco, più bianco del bianco colore che caratterizzava l’ambiente in cui ero, stava incominciando a prendere forma, una forma sempre più simile a un corpo umano, sempre più simile a un uomo, a me.

Quando il corpo si fu ben formato, gradualmente incominciò a cambiare colore per assumere il mio colore stesso. Capelli del mio colore, pelle del mio colore, occhi del mio colore. La figura accanto a me si alzò e cominciò a muovere i suoi passi verso una, ipotizzo, parete e la attraversò, scomparendo dalla mia vista. Pensai: un clone…

Rimasi solo, per un istante. Poi la tepida corrente amica che mi aveva dolcemente condotto lì, mi riavvolse, mi sollevò e mi condusse verso un gigantesco schermo nel quale apparve una scritta bianca dai margini dorati: “Grazie amico”.

La tepida corrente portò a termine la sua missione riconducendomi là, dove mi aveva precedentemente avvolto e mi depositò al suolo, in piedi. Una forza lieve, la stessa che mi attrasse, questa volta mi spinse verso il posto in cui mi trovavo mentre ero in ansiosa attesa di questo straordinario evento.

L’oggetto all’improvviso si illuminò di una bianca luce intensa ma non accecante; Si sollevò verso il cielo, eseguì alcune circonvoluzioni, poi scomparve, scemando la sua luce, sino a scomparire nell’infinito. Per molte notti, per molti anni ritornai nel luogo del mio incontro con gli Ufo. Gli Ufo non vennero più. Quegli anni furono gli anni delle mie notti bianche.

(Questo racconto, è il frutto di una improvvisazione di scrittura sul tema incontri con gli ufo)
( Racconti brevi di Gianni Nachira 21 Marzo 2015 – tutti i diritti riservat )

CHIUSO PER FERIE

Hai messo un cartello…

 

Chiuso per ferie

…ma non è vero, anche se chiudere è un po’ come andare in ferie in una forzatura voluta ma non capita; percepito il senso, ma non intuito, mentre la gente guarda e ride e non sa perché. Indicibile il giudizio, eppure, banalità e stupidità mai s’evelle, si sa, ché, è insita, ficcata a mo’ di chiodo, come se carne fosse legno marcito o ferro rugginoso.

CHIUSO PER FERIE

La menzogna davanti, che nasconde, rosso il viso di vergogna, alla gente che sa perché non sa, che il cancello chiude quando è tardi per restare aperto, se no la gente entra a tutte l’ore… ma sol per rompere palle rotte già.

Dunque il tempo parla chiaro e a gran voce; e la tirannia del secolo chi mai l’ostacola? ma si! davanti al cartello

CHIUSO PER FERIE

anche la tirannia si tace… che lo scopo suo è raggiunto, a meno che un demone non l’assalga sin o a morte.

Sì, ma in fondo è CHIUSO PER FERIE e se non apre, la gente pensa: “Ma che ferie lunghe si fa… che nemmeno un politico se le permette, nemmeno quello da 360 MILA euro l’anno, poareto”.

Non c’è bisogno d’andare lontano per trovare l’ossessa lucidità che serve, basta che guardi e intorno a te vedi ombre vecchie e storpie dei poveri bastardi che la proiettano ad arte insieme alle ombre giovani, affamate di pane e droghe allucinanti, né più ingurgitato l’uno, né più inalate le altre.

Anch’essi han CHIUSO PER FERIE e non s’apre più la porta. Ma quale porta poi, se pure il Colosseo  non ha inferriate, come le case… tanto a che serve la porta? Il ladro onesto è la novità del secolo; suo è il diritto d’entrare e portar via tesori sblindati ormai, privati del loro valore primo.

Silenzio, non voli Mosca, c’è la cosca che deve arrivare.

Ché? Non è arrivata? Ma se la conosco da una vita, è lì appostata. “Mi prendi per il culo?” Costui prova a dire  ma la cosca sa cucire la bocca e mai più costui proferirà parola e giace. Stupido e infatuato del bene non ha visto la lama tutta affilata e, ah… se almeno lo fosse stata a metà… Tutta la lama in petto gli è entrata.

CHIUSO PER FERIE

Ancora il cartello è lì e chi l’ha messo non si sa e non si sa perché… non si sa… perché; non si sa… chi.

Passa davanti un cane; non duole il cane. Passa davanti uno di colore scampato all’onda impazzita di un mare assassino…  Ha fame… Ha sete… Ha freddo… Ha rabbia.

CHIUSO PER FERIE,

Beh anche lui è qui in ferie e chi sa, pensa, dove sia andato costui a bighellonare. Fuggire è un diritto e guai a chi lo nega… Fuggire… Lontano… Andare. Lacrime in mano.

E’ la fine, la fine dell’inizio; crea vibrazioni infinite il senso che lui prova, tutto gli trema dentro… dentro le viscere attorcigliate, nodule.                                                                                                                        

Di lì a poco l’esplosione ed è il terrore. Lo coglie con un guanto come fosse tesoro dentro scrigno prezioso assai,   conquista d’essenza liberatoria in una realtà scossa e riscossa e non è stato possibile evitare quel cartello, l’immenso, gigante pubblicitario incapace di non mostrarsi in tutta la sua irreale indifferente freddezza agli occhi spenti degli ebeti non vedenti che stavolta lo leggono chiaro quel

CHIUSO PER FERIE

Ora che… ora che… ora che forse lo avrebbero accolto a braccia aperte, spalancate totalmente, tutte assieme, unite in un unico abbraccio.

No, la morte no! La morte è nemica dell’uomo, anche del più disperato, mentre la vita…la vita…la vita mente, come sempre, sempre falsa e bugiarda. Sorride la vita,

il sarcasmo non è maschera, ma espressione di compiacimento ché, ha spianato strade…  molte ne ha spianato alla morte al sonno eterno che uccide l’anima.

E tu  dov’eri? E tu, che facevi? E tu, che volevi?

Volevi… Volevi… raggiungere il cielo, volevi, il troppo lontano cielo, azzurro, immenso, infinitamente bello come l’Eden, ricco di fiori, di frutti, opulento di pace, di silenzio. Silenzio… ma non per te.

Tu uomo, costretto a caos e rumore, non puoi esimerti dall’udire urla feroci di belve impazzite e i denti li vedi…rabbiosi, lame taglienti, come lingua di fetenti che sparlano di te alle tue spalle con l’arma vigliacca della parola e tu nulla puoi, se non, esporre il tuo cartello… CHIUSO PER FERIE e poi fuggire.

Si, fuggire correndo incontro alle belve per affrontarle e fulminarle con lo sguardo e l’indice, fendenti entrambi… sferrano il colpo fatale che induce a morte. Meritata morte…Si, meritata.

Lasci il cartello. Ti allontani. Diventa piccolo…piccolo…Sempre più.

Anche così minuscolo, il cartello mostra chiaro il suo avviso:  CHIUSO PER FERIE.

( Racconti brevi di Gianni Nachira )

CONFESSIONE

Confessione

Si, devo proprio confessarmi. Non ho peccato in opere, no! neppure di omissioni no; In pensieri poi, non ne parliamo proprio. La parola, si! La parola è il mio peccato. La parola fluisce spontanea…Pensata e detta.

C’è chi dice di contare sino a 10 prima di pronunciare la parola. Come ho detto prima, pensata…dunque contato. Il fatto è che per me contare è così spontaneo e naturale che per giungere al fatidico 10 impiego una frazione di secondo…esageratamente lungo.

Perché, poi? tanto, che dica balle o che racconti cose vere, a chi può importare?

Una volta ho scritto al presidente della Repubblica, mica mi ha risposto. Gli ho chiesto come funziona l’Italia… una domanda importante, ma niente

Neppure il presidente del consiglio lo ha fatto. A lui ho chiesto dei consigli su come gestire la parola per combattere la mafia nella politica… Zero assoluto.

Allora mi sono rivolto al Papa e gli ho girato una domanda su come si servono i poveri. Ebbene, lui mi ha risposto… Che gioia! Mi ha detto che se gli avessi chiesto come si studia la parola, mi avrebbe potuto fornire le giuste indicazioni. Già, lui di parola se ne intende… e non pecca. Beato lui. Invece io, non trovo neppure un confessore che mi perdoni il peccato della parola. Ne ho troppa. Troppa. Troppa.

Idea. L’idea mi sta balenando… Sì, la concretizzo nell’attimo in cui la penso. E’ come la parola, rapida, istintiva, immediata, realizzata.

Vendo la parola al migliore offerente. E’ l’annuncio che metterò tra gli annunci gratuiti su internet. Così, una volta venduta non ne avrò più ed avrò pure raggranellato un po’ di spiccioli.

Già, gli spiccioli. Gli spiccioli mi servono per campare, mica per bighellonare. Per quello servono i soldoni, tipo quelli che incassano i nostri politici, la classe dirigente di enti e istituzioni e altri… di cui è meglio non fare nomi, altrimenti la mafia mi salta addosso. Allora no, non mi conviene vendere la parola, perché se no che parola userei per combattere la mafia? No, no, no, n,o no. Che cosa mi fate dire? Io amo la mafia, è la mia compagna di sempre, la compagna della mia infanzia,. A scuola ce l’avevo al primo banco della quinta elementare, compagna fidata, muta. Sapeva custodire i miei segreti… E io i suoi.

Poi l’età… Ah! L’età. Chi la conta più? Chi ne tiene conto? Parenti e amici, no. Conoscenti di meno. La gioventù… quella si che la conta e la verità te la carica sulle spalle, pesante come macigno.

La storia è cambiata, si. La storia non esiste più: Né quella passata, Né la presente, né quella futura che avevo scritto con tanta lena e cura. Me l’hanno cancellata la storia del futuro. Non me la ritrovo più tra le mie vecchie carte. Neppure un file mi è rimasto.

La memoria, però c’è. Quella nessuno la cancella, perché non è RAM e neppure disco rigido. La memoria è cerebrale e nessuno me la può portare via. Grazie alla mia memoria, la parola resta, anche se vendo la vecchia parola, ne creo di nuova, più bella, più dura, più forte… Eterna.

Eterna? No… Mi stavo dimenticando della morte. Quella è funesta, è bastarda, è impietosa e prima o poi arriva e quando arriva fa danno, cancella memoria e parola. Ed è la fine. Prima della fine però, la voglio esaurire la parola, tutta la parola sì che la morte rimanga con un palmo di naso.

( Racconti brevi di Gianni Nachira )

L’EBETE

 

L’ebete

Fermati, che fai. Non vedi che disturbi? Era da tanto che non sentiva più quel richiamo e non era sordo anzi…nel tempo, l’udito gli si faceva sempre più forte e il bisbiglio era come se lo sentisse anche da lontano…da molto lontano.

Oggi, però, lo stronzo era lui, perché non ha capito…non ha capito. E cosa avrebbe dovuto capire? forse l’insulto? forse che l’avverso c’è e che gli fa paura?
Ah! L’ebete. L’ebete è giusto l’ebete, che vuoi che sappia?
Mi sono domandato perché, costui, abbia percorso i suoi sentieri e perché si ostini a non lasciarli, a non voltare strada, cambiare pagina, chiudere un libro per aprirne un altro. Invece no, non c’è risposta. Lui è lì.

E’ lì, impilato in mezzo a tanti; E dalle teste dei tanti spicca la sua:
Bruna, grande la faccia, ligneo l’aspetto, pietra infuocata, occhi fissi a guardare, lo sguardo mai basso, come di chi non teme; come di chi nulla ha di male, se non il pessimo vizio di volere bene e tendere la mano, anche quando il peso,
il gravame, vorrebbero gettarlo giù a forza, un’inaudita forza.

Fermati, che fai? Hai rotto…
“Che cosa ho rotto”… si è domandato.
E pur guardandosi intorno non vedeva cocci, nessun genere di cocci.

Ma la sua testa spiccava ancora,
ulivo tra gli olivastri, oro tra metalli poveri, parola nel silenzio.
Già, il silenzio.
Lui pensava di poterlo sentire il silenzio
Credeva di poterlo vedere il silenzio…
Il silenzio… Il vile silenzio, così rumoroso, così subdolo,
così vigliacco.
Non sentiva… Era sordo.
Non vedeva… Era cieco.
Non capiva…  Era l’ebete.
Il turnista.

E si, il turnista non lo sa di essere lui, ma è toccato a lui stavolta.
E si è adagiato sugli scanni più alti per far vedere che lui c’era.
Ma dove? Dove c’era? Nel mondo? In una qualche parte del mondo?
“Si! Deve essere che sono nel mondo” -pensa-, “altrimenti no.
Non sarebbe così. Non sarei l’ebete. Non sarei…”
Pensa e non dice.

Essere o non essere… Il solito problema che affligge l’ebete
Ma è giusto, è normale, è insito nell’essere…
Perché se così non fosse, allora…
Se così non fosse non ci sarebbe ragione, non avrebbe ragione,
non porterebbe addosso i panni che ha, lindi, sempre lindi, lindi.

C’è l’indice, però, che è puntato sulla macchia
Che il panno non fa più lindo, qualcuno dice…
Perché se l’è fatta addosso.
Si, se l’è fatta addosso e adesso?
Adesso, adesso… Adesso cambia il panno
E tutto torna come prima,
meglio di prima… Meglio.
Poi c’è il ricordo che pesa.
Gli pesa il ricordo ma lui non sa quale,
se quello o quell’altro, oppure questo.
Quale? Se lo chiede una dieci cento
Mille volte se lo chiede e poi:
Ah! Adesso ricordo. Sì, dice ma son passati più di due anni.
Possibile?…
Possibile?…
Possibile?
Possibile, sì, possibile.
Possibile che non si faccia i cazzi suoi?
Possibile. E perché? Perché…
Ma perché…  perché?

Mah! I misteri sono stati sempre il suo forte.
L’ha detto lui, si! Proprio lui che di misteri se ne intende.
Con i misteri se l’intende. Lui e i misteri…
Sono un tutt’uno inscindibile come l’indecifrabile suo dire,
folleggiante e pregno di niente, che niente intende
e tutto fraintende, sposando la tesi del possibile
da coniugarsi all’inverosimile a rafforzar la tesi.
Tesi? Si, tesi. E perché non ipotesi?
Sarebbe più leggero assai il fardello.
Si, più leggero assai… Leggero.

Ma quando leggero gli diverrà leggerò, allora capirà,
anche l’impossibile capirà, da solo,
senza suggerimento alcuno, senza il suo Mèntore.
E’ tutta questione di concetti.
Concetti?
Quali concetti? Tutti gli parlano di concetti
Ma i concetti lui non li coglie.
Si, si vede che è proprio un ebete.
Lo scemo, lo sciocco, il fuori di testa intercettato…
Pardon… internettato con mondo
E quel mondo non gli appartiene.
E’ degli altri quel mondo e lui lo vorrebbe.
Starebbe bene nel mondo, lo confessa sempre.
Chiunque lui incontri glielo deve dire:
Nel mondo sto bene. Giacché non ci  sono rompipalle,
né furbi e né vigliacchi si… vigliacchi
con sorriso davanti e con il digrigno di dietro.

Dietro lui, un mondo diverso, dietro lui.
I colori di quel mondo non avevano niente di conosciuto.
Né il giallo somigliava al sole, né il grigio a nuvole.
Il nero, però, il nero… Il nero era proprio nero, tutto nero.
Neppure una ciocca come di capelli che fosse bianca… o grigia… Nero.

Nel buio di quel nero le ombre altro non potevano essere se non nere.
Ombre… Le forme strane, ombre di demoni? Ma no. Ma no, Ma no.
Ombre di uomini un po’ meno uomini.
Ombre di squadre armate d’intenzioni. Quali intenzioni? Quante intenzioni?
Follia… Follia… Follia, quella più estrema, alla cui estremità
si appende il simbolo della vita nera che grida e grida e grida.
Pochi si otturano l’orecchio e il simbolo ha in mano
lo scettro del comando che ha punta e taglio… e taglio.
Il taglio fende, la punta uccide.

Poi la luce; davanti a lui s’è aperta la speranza del varco,
s’è prospettata nel dubbio la fuga verso un possibile salvataggio
ma la nave non ha scialuppe possibili né salvagente gonfiabili
solo una fune, una fune, una corda, una corda.

La prigione ce l’ha una finestra, ma è stretta, troppo.
Deve digiunare, dunque. Digiunare per dimagrire di più,
di più, sempre di più. Soltanto allora quella finestra, l’agognata finestra della libertà
gli dirà: “Adesso puoi passare attraverso me. Adesso puoi”.
Già. Adesso però è soltanto spirito. Passa, va via, lasciando l’inanimato corpo spoglio, sulla nuda terra della sua prigione.

( Racconti brevi di Gianni Nachira )

LA STORIA DEL TEMPO CHE MAI FU

IL Marghine

La storia del tempo che mai fu

In quel tempo il castello d’aria e acqua si ergeva imponente tra milioni di violente correnti cosmiche e non piegava torre, né muraglie di cinta crollavano alla forza inaudita di quelle.

Il tempo non marcava le ore perché nessuno le contava. Le galassie d’ogni specie circondavano il castello e tentavano di insabbiarlo con le loro polveri cosmiche, ma l’acqua e l’aria ripulivano incessantemente ogni angolo del castello. Nei milioni di millenni della sua esistenza, il castello risentì della noia, mentre una tristezza mortale invase ogni angolo, ogni vicolo, ogni stanza d’ogni sua ala.

Stanco di una simile condizione di sofferenza, il castello decise di affrontare un viaggio impossibile mediante un prototipo di macchina del tempo. Si fece avvolgere in essa e con non poca paura, immerse nel comando ad acqua la sua goccia cosmica vitale e dopo millenni di viaggio, si fece planare sulla terra, più precisamente a Tamuli.

Intanto, man mano che il castello viaggiante si avvicinava alla terra, al contatto con l’atmosfera, da acqua ed aria si trasformò in solido e assunse l’aspetto di una costruzione, giusto per restare in tema, “galattica”, smisurata, rispetto a ciò che poteva esserci intorno, realizzata, per mutazione di elementi e non si sa per quale sconosciuta formula cosmica, con  composti di terriccio e pietre perfettamente tagliate lavorate e rifinite.

Tamuli, che sulla terra in quell’epoca era un importante sito archeologico su cui risiedeva una comunità di individui di grande ingegno architettonico, si ritrovò accanto alle locali strutture nuragiche il castello caduto dal cielo. “Una maledizione”, fu il pensiero primo dei capi e anziani di quella comunità e, nonostante i portoni del castello aperti, a tutti fu dato l’ordine di tenersi lontani e di non entrare.

Tamuli, con la sua parvenza di cittadella costruita tra rocce e scavi sotto superficie e capanne, poteva vantarsi di aver edificato un nuraghe, la necropoli e due tombe dei giganti. Gli abitanti, esseri umani piccoli di statura, contrastavano con la mole dei giganti che abitavano la zona, peraltro considerati esseri soprannaturali, molto alti, grossi, forzuti, a detta di credenza popolare semi dei, cui la comunità aveva dedicato il luogo di sepoltura tutto per loro.

La gente di Tamuli chiese colloquio con la razza superiore loro conterranea  alla quale domandò un parere sull’evento che all’alba di quel giorno colse quel territorio. I giganti, esseri spavaldi, per nulla intimoriti, decisero di entrare nel castello e, pur rendendosi conto della meraviglia architettonica nella quale erano entrati, la considerarono un’opera del male, una visione palpabile, messa lì da spiriti malvagi, demoni ambasciatori di eventi nefasti per attirare tutti gli abitanti del villaggio e poi rinchiuderli all’interno della altissime mura di cinta e farli morire di fame, dopo averne provocato il cannibalismo.

Fu questa la spiegazione dei giganti, i quali assunsero l’incarico di smantellare il castello. Prima di incominciare l’opera, chiesero alle donne e bambini del villaggio, di intercedere in preghiera, affinché gli spiriti buoni proteggessero il lavoro dei giganti. L’opera di smantellamento ben presto ebbe inizio e proseguì senza intoppi o danno a persone o cose, sino a quando il castello non fu raso al suolo. Si dice ci siano voluti tre anni interi.

Poi, le pietre vennero caricate su carri condotti da muli asini e buoi e portare nella più vicina marina di Bosa e furono rovesciate in mare da uno strapiombo roccioso.

Ecco. Un gioiello della Galassia, eterno, mistero buono di un cosmo generoso, giunto a Tamuli per offrirsi all’uomo, ha finito miseramente di esistere, gettato a mare da un’orda barbarica incapace di apprezzare la meraviglia galattica materializzatasi lì e portatrice del futuro. Per quanto nei secoli le pietre di quel castello siano state cercate in  mare, non sono mai state ritrovate e che, la leggenda racconta, una volta sommerse dall’acqua, si siano trasformate in acqua e aria e siano ritornate nel loro luogo d’origine.

(Gianni Nachira – 03 Aprile 2015)

( racconti brevi di Gianni Nachira )

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